C’è sempre una finestra che, nonostante tutto, resta aperta. Un portale segreto verso un altrove diverso, che non può essere chiuso. Come nel mondo dell’informatica, così nella vita. Secondo lo studioso Charles Jennings la “centesima finestra” è quella che inevitabilmente rimane aperta, permettendo così l’accesso a macchine remote. Da tale teoria nasceva l’ispirazione dell’album “100th Window” (il cui titolo richiama proprio le teorie dello studioso contenute in libri di sicurezza elettronica) dei Massive Attack, dove la “centesima finestra” è sempre spalancata sul nostro inconscio, sulla nostra psiche, sulle nostre identità dissolte e in frantumi, come l’uomo di vetro in copertina.
Parlare dei Massive Attack significa parlare di una delle band più importanti dello scorso decennio, capace come pochi di rappresentare il suono del suo tempo (dall’esordio “Blue Lines” fino a tutte le successive evoluzioni, la band si è imposta come creatrice indiscussa del trip-hop). A cinque anni di distanza dal successo di “Mezzanine”, “100th Window” suonava più oscuro e ipnotico. Disco probabilmente meno d’impatto rispetto alle sonorità a cui i Massive Attack ci avevano abituato, ma non per questo meno brillante.
“100th Window” vive di luce propria, senza temere paragoni coi capitoli precedenti della loro fulgida carriera. Rinunciando agli aspetti meno ballabili, l’andamento è decisamente più seducente, penetrante, alienante. I toni sono notturni e metropolitani, bianchi e oppressivi. Al centro la psichedelia che risplende di luce scura, bella e complessa, tra bassi pulsanti, avvolgenti tastiere neo-gothic e voci rallentate e ovattate. Presente, come sempre, la componente ossessiva data dalla ripetizione di frammenti e dal rincorrersi esasperante dei suoni (vera e propria firma dei Massive Attack!).
È da segnalare il fatto che l’album “100th Window” non vide la formazione al completo della band. Pur rimasto temporaneamente da solo, Robert “3D” Del Naja riuscì ugualmente a confezionare un album marchiato Massive Attack: nove tracce per un’ora e un quarto di furia a fuoco lento, ipnosi e sfolgorii apocalittici, brucianti iridescenze e caos di frammenti e parole.
“100th Window” è un album che incanta e seduce a primo ascolto. Anche a vent’anni di distanza. Un flusso continuo di suoni, umori e sensazioni avvolgono l’ascoltatore, trascinandolo in luoghi inaccessibili e lontani. Bastano i primi secondi della sognante Future Proof per restare irrimediabilmente affascinanti: sospensioni ritmiche, beats sintetici e liquidi, complesse stratificazioni elettroniche in un ibrido fra la cibernetica e gli archi orchestrali orientaleggianti. Il tutto accompagnato dalla voce gelida e introspettiva di 3D. I brani successivi ci presentano le altre voci del disco: la popstar irlandese Sinead O’Connor, Horace Andy e Nelle Hopper, questi ultimi già preziosi collaboratori della band. La prima, grazie alla sua voce commovente ed espressiva, in What Your Soul Sings porta uno squarcio di viva luce; il secondo nella sintetica Everywhen mostra i segni di una ferita lancinante, in un riverbero senza possibilità di ritorno.
Special Cases è la traccia più ballabile dell’album con la splendida voce della O’Connor che si destreggia tra bassi sinuosi, archi ed elettronica. Devastante, invece, Butterfly Caught: capolavoro dark elettronico, vero e proprio cuore dell’intera opera. L’unione tra il vocalizzo monocorde di Del Naja, suoni techno spettrali e archi sintetici creano un brano nero e minaccioso. La musica accompagna tutte le riflessioni sospese, tra introspezione e libertà dei sentimenti. Segue la struggente preghiera A Prayer For England e il sussurro di 3D in Small time shot away: “small talk everytime/ it’s my favorite chloroform”. L’album si chiude con le atmosfere orientali di Antistar e col suo crescendo di archi finale. Impossibile non smarrirsi nei suoi trepidanti arabeschi e nei dieci minuti di frequenze digitali: “yeah/ more sweet narcossis”.
“100th Window” veste i panni di un algoritmo sonico, una sorta di soundtrack in cerca di epifanie visive. Blues digitale e reggae sclerotico si impastano insieme ad un soul notturno, ad un jazz sintetico e ad un pop fuggiasco, oscillando tra impalpabili ninne nanne e soffocante psichedelia. È un album che non teme minimamente lo scorrere delle lancette, non sbiadisce e non perde neanche uno scintillio della sua cupa bellezza. Robert Del Naja dei Massive Attack ha spalancato per noi la sua “centesima finestra”, trasportandoci lontano da tutto, lontano da tutti, e mostrandoci il suo universo fatto di echi orientali e chitarre aliene, suoni naturali e beats sintetici, voci umane e distorsioni elettroniche. Il risultato? A vent’anni di distanza non possiamo far altro che dichiararci ancora perdutamente sedotti.