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Interviste

Per tenere in pugno il suono della luce: intervista a Daniele Bogon

Uscito ad inizio febbraio su Slowcraft, “Del Suono E Della Luce” (qui la nostra recensione) è l’album di debutto di Daniele Bogon, musicista e sound artist padovano, in passato con i The White Mega Giant, oltre che da solista con il moniker Alley. Il disco esplora le potenzialità dell’universo della musica elettronica e dell’ambient in particolare, fornendo una visione intima, profonda e coinvolgente che mira ad unire suono e luce in una sola entità sonora. Lo abbiamo incontrato.

Ciao Daniele, ho letto moltissime cose su di te ma mi piacerebbe che fossi tu a presentarti oltre il nome, a dirmi e dirci chi sei.

Ciao Arianna, domanda difficile ma ci provo: sono una creatura in continuo mutamento estremamente sensibile alla materia sonora, ma sono anche un marito ed un papà.

Il tuo precedente moniker è Alley. Cosa è accaduto dentro di te affinché Alley lasciasse il posto solo, si fa per dire, a Daniele? Cosa ha determinato la rimozione di questo “filtro”?

Alley è stato il moniker che ho utilizzato per il primo disco. C’era una parte di me un po’ timida e insicura dietro Alley, mi serviva uno schermo, una protezione, una crisalide in cui rifugiarmi e che si è sfaldata nel momento in cui mi sono sentito pronto. Inconsapevolmente avevo bisogno di un periodo di incubazione che mi permettesse di passare dall’esperienza con la band a quella solista. Poi qualcosa è cambiato e ho sentito che non sarei stato sincero verso me stesso nel rifugiarmi in un nome di fantasia, non ero io e non mi rispecchiava. Firmare i miei lavori con il mio vero nome mi ha spinto ad essere completamente onesto con me stesso dal punto di vista artistico; ci sono io e nessun altro quando scrivo e questo ha fatto cadere ogni barriera, ogni limite, cambiando di molto la mia prospettiva in quello che faccio.

Quali sono le tue personalissime definizioni, anzi, idee (“definizioni” è un termine alquanto riduttivo e limitante) di musica elettronica e, soprattutto, ambient?

Penso che la musica elettronica e ambient siano spazi meravigliosi in cui è semplice, per me, trovare libertà di esplorazione compositiva e sonora. Non sono mai stato troppo attento alle etichette, ritengo sempre che se qualcosa ti tocca dentro allora abbia un valore, anche se stai ascoltando 20 minuti di droni o noise che saturano l’ambiente. Trovo che quando sperimentazione e ricerca sonora riescano a coniugarsi in un risultato che mantenga una certa forma “musicale”, allora siamo davanti all’elettronica nella sua forma migliore.

Qual è il processo compositivo, tecnico e non, che accompagna la nascita di “Del Suono e della Luce”? Segue lo stesso percorso dei tuoi precedenti album o ha una storia tutta sua?

“Del Suono e Della Luce” ha una storia diversa. Nel periodo in cui ho iniziato la stesura del disco (siamo nel 2020) ero quasi esclusivamente concentrato su un sintetizzatore in particolare (parliamo del Korg MS-20) sia come sorgente sonora sia come macchina attraverso la quale processare altri strumenti. Era l’elemento del mio studio con il quale in quel momento mi sentivo in maggior sintonia poiché mi restituiva (e tutt’ora è così) qualcosa di particolare con il suo spirito analogico e il noise di fondo dei suoi 40 anni; non è solo una macchina, ha un qualcosa in più che lo rende vivo se vogliamo. Così ho iniziato a registrare varie improvvisazioni che di fatto erano un dialogo tra me e la macchina, sulle quali (non in tutte) si sono aggiunti poi altri strumenti e ogni volta tutto veniva fatto filtrare dall’MS-20. Solitamente il mio processo creativo si basa su immagini ma in questo caso è stato diverso perché è stato il suono a restituirmi delle luci, dei colori, delle impressioni visive e questa è stata un’esperienza nuova per me come compositore. Il suono mostrava la sua luce in un’esperienza sinestetica.
Il titolo è arrivato subito, prima che i brani prendessero forma e in qualche modo rappresenta la sintesi di tutto quello che stavo vivendo sul piano artistico e su quello personale. Da una parte sentivo di voler spingere il mio suono fuori dai confini già esplorati, volevo coglierne l’essenza e farla vibrare permettendole di espandersi. Nello stesso periodo ho assistito alla nascita di mio figlio ed è stata un’emozione indescrivibile. Quando assisti alla nascita di una nuova vita sei di fronte all’espressione più grande della vita stessa, ne senti la forza e la ferocia, la potenza e la dolcezza, il vero e proprio pathos, il respiro e il battito. E’ un’esperienza a 360 gradi dove tutto si espande e allo stesso tempo si comprime, sei parte del tutto e improvvisamente sei di nuovo nella stessa stanza di prima. Le due cose sono ovviamente confluite sul piano compositivo dove tutto si stratifica e si satura battuta dopo battuta; ampi loop che si riversano l’uno sull’altro e si ingigantiscono di volta in volta. Volevo arrivare ad avere un suono materico, che occupasse uno spazio fisico nel vero senso della parola; rendere materiale qualcosa che materiale non è, era diventata quasi un’ossessione.

daniele bogon suono luce

In una tua non recentissima intervista ho letto  che avresti voluto tenere in pugno “il suono della luce”. Pensi di essere riuscito ad afferrarlo nel tuo ultimo album?

In parte sì, ma credo che questo disco abbia dato inizio ad un percorso nuovo, segnando un confine tra quello che c’è stato prima e quello che ci sarà in futuro. Quell’ispirazione, quell’immagine (il suono della luce appunto) non so se sia davvero raggiungibile; forse si realizzerà alla fine del percorso o forse sarà l’intero percorso stesso a rappresentarla ma mi accompagnerà ancora per parecchio tempo

In quale parte di te è nato “Del Suono e della Luce”? E fuori da te?

Come scrivevo prima, “Del Suono e Della Luce” si concretizza con l’arrivo di mio figlio ma sicuramente c’era già il richiamo verso qualcosa di più profondo che, se vogliamo, mi ha riportato al centro di me stesso.

Ho ascoltato, o meglio sentito in tutte le stanze della mia percezione, tutti i tuoi lavori e ho avuto la sensazione di trovarmi dentro ad “un’eterna partenza”, come se provassi e riprovassi quella sensazione di distacco, di vuoti che si fanno pieni di spazi “altri”. Con il termine “partenza” non intendo solo moto a luogo, ma migrazioni interiori verso regioni più o meno esplorate dell’essere. Cosa hai da dire, o correggere magari, a riguardo?

Si, direi che il concetto di “migrazioni interiori” esprime bene quello che la musica mi permette di fare, ovvero di addentrarmi nell’esplorare ciò che sono. E’ un percorso che presenta ogni volta elementi nuovi che si aggiungono a quelli già presenti e via via si perfeziona. Non ho mai aspettative su quello che troverò, su quello che emergerà sul piano interiore e che verrà restituito poi sotto forma di suoni. Ogni partenza è un momento estremamente intimo, delicato, che richiede il suo tempo per essere vissuto, osservato, cambiato o accettato per com’è.

Adoro fare questa domanda, quindi ti tocca! Cosa cerchi, quando cerchi?

Cerco la profondità. A volte può essere disorientante o molto faticoso ma se la si trova tutto acquisisce un significato diverso.

E cosa hai provato quando hai trovato il suono della luce?

Ho capito che in qualche modo ero esattamente dove volevo essere e di conseguenza molte regole sono cadute e c’era più spazio interiore e meno affanno. Ma ho anche capito che è una cosa che si realizza in una frazione di secondo, una sorta di illuminazione che ti tiene legato a sé ma che non si può trattenere o bloccare e ti spinge a ricercarla nuovamente.

Su YouTube ho goduto dei tuoi video, apparentemente semplici eppure di grande impatto visuale ed emozionale. Cosa ti restituisce la risoluzione formale filmica rispetto a quella sonora? E c’è qualcosa che manca all’una e all’altra per definirsi complete?

Personalmente credo che possano completarsi a vicenda anche se può accadere che la componente visiva “riduca” la portanza di quella sonora se non adeguatamente sviluppata. Anche se spesso e soprattutto in quest’epoca storica le immagini sembrano avere un peso maggiore dei suoni, il suono ci parla attraverso un antico linguaggio e permea ciò che siamo al di là di quello che registra il nostro orecchio. Sono profondamente convinto che un suono diventi parte di noi per sempre, anche se non lo ricordiamo a livello consapevole continua ad esistere all’interno di noi.

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