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dEUS – How To Replace It

2023 - [PIAS]
art rock

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Tracklist

1. How To Replace It
2. Must Have Been New
3. Man Of The House
4. 1989
5. Faux Bamboo
6. Dream Is A Giver
7. Pirates
8. Simple Pleasures
9. Never Get You High
10. Why Think It Over (Cadillac)
11. Love Breaks Down
11. Le Blues Polaire


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Fenomenologia di un lungo silenzio: cosa aspettarsi quando un artista/gruppo di grande successo ed elevata qualità su pressoché tutte le sue uscite musicali, torna a pubblicare inediti dopo una lunga attesa?

Possibilità n. 1, o “Metodo Iosonouncane”: è la più ottimistica. L’artista/gruppo in questione solitamente ha tendenze perfezioniste ed ha bisogno di un sacco di lavoro di limatura prima di portare alle stampe il suo lavoro. Ma il risultato finale ripaga ampiamente le aspettative: si applica anche per i maghi del trip-hop come Portishead (11 anni per arrivare a “Third”, ma che disco)! E Massive Attack ( 7 anni tra “100th Window” ed “Heligoland”), e notiamo che qui su entrambi i fronti siamo fermi da almeno 13 anni.

Possibilità n 2.o “Le due vite secondo Michael Gira”: è una non-teoria. C’è una lunga pausa, alla quale segue un ritorno alla produttività solitamente di buon livello, non necessariamente al primo disco del nuovo ciclo. Succede, come nel caso degli Swans, quando il gruppo si scioglie o ha una pausa, per poi riprendere il filo. Di fatto non c’è differenza nella gestazione dei dischi pre e post, dato che il processo creativo riparte nel momento in cui si decide di tornare a produrre musica. 


Possibilità  n.3 o “Complesso dei Tool”: è l’eventualità più fosca. Si spera, anzi si crede fermamente, per fiducia nelle indiscutibili qualità dell’artista/gruppo in questione, che più l’attesa sia lunga, tanto epocale sia la portata del disco nuovo. In realtà la lunga attesa tra una pubblicazione e l’altra nasconde un’amara verità che prima o poi dobbiamo accettare per il 90% delle carriere musicali: quando il filone creativo si esaurisce, spesso non si ha il coraggio di uscire con un lavoro non all’altezza e si prolunga infinitamente l’attesa per il nuovo disco, cercando di cumulare materiale quantomeno accettabile. Ad un certo punto, magari anche per la pressione del discografico di turno, la pubblicazione di nuovo materiale non è ulteriormente posticipabile ed i fan dopo pochi ascolti passano da entusiasti ad apatici e attoniti. Di solito più è lunga la pausa, più è facile che questa teoria si riveli fondata,  ma è un parametro che va messo in relazione all’esperienza precedente, non è necessario arrivare a 13 anni (vedi Verdena).

Fatta questa doverosa premessa scientifica, arriviamo al punto: cosa pensare dell’ottavo disco dei dEUS, arrivato ad 11 anni da “Following Sea”, il quale chiudeva un ciclo molto produttivo avviato nel 2005 con “Pocket Revolution” e terminato con una doppietta in due anni? È stato il ciclo di Mauro Pawlowski, prima chitarra solista a restare in pianta stabile nel gruppo, al quale ha dato una propria impronta musicale che si è affiancata all’indiscussa creatività del frontman Tom Barman e al polistrumentista Klaas Janzoons, unici membri della prima ora rimasti. Ed è stata proprio l’uscita di Pawlowski nel 2017 l’unico sussulto di questi anni di pausa dalla produzione di nuovo materiale (che comunque li hanno visti affrontare un centinaio di concerti); un Pawlowski che comunque è rientrato nei ranghi l’anno scorso, prima come sostituto per i live e poi partecipando alla registrazione di due pezzi del disco.

Le premesse vedono il ritorno dei dEUS assimilabile alla teoria n.2. Ma dopo i primi ascolti, la resa del disco è più vicina alla n.3. Da loro prassi, c’è un apertura ad effetto, in questo caso orchestrale. Pomposi timpani aprono alla title-track, un valzer di ampie coralità alla The Architect ma con toni più seriosi e solenni. Segue il pezzo migliore del disco, il primo singolo Muse Have Been New: subito riff potente a sovrastare tutto, poi gospel a voci femminili e l’incalzante Barman in un crescendo vocale, 100% dEUS. 

Dopo la torbida Man Of The House, anticipata da una spinetta simonettiana, arriva il primo “no” secco del disco: è 1989, uno smaccato revival in cui Barman esagera in profondità vocale, nelle intenzioni dovrebbe esserci un Cohen un po’ più sensuale ma il risultato finale somiglia più a Gli occhi del mio ex di Auroro Borealo. È una botta dalla quale non è facile riprendersi, sarà per questo che le successive Faux Bamboo e Dream Is S Giver suonano come riempitivi (perdonate la parolaccia).

Come un pugile che cerca nuovamente l’equilibrio dopo esser stato colpito duro, i nostri ritrovano faticosamente le fila con Pirates, altro pezzo che segue molto fedelmente i canoni virtuosi della loro composizione recente: inizio tranquillo e poi cambio di atmosfera per virare verso un crescendo più cupo e grottesco. In Simple Pleasures si divertono a giocare con voci e tonalità, distorcendo e riavvolgendo un pezzo piacevolmente senza capo né coda impreziosito dagli inserimenti vocali di Sylvie Kreusch. Nell’anthem Never Get You High è invece Pawlowski a farsi sentire e a dare la giusta incisività ad un pezzo tutto sommato basico.

Sul finale c’è una nuova flessione: Why Think It Over (Cadillac) rasenta l’irritante, mentre su Love Breaks Down i dEUS si cimentano su una inopportuna ballad, enormemente distante dai loro fasti a tema degli anni ’90: un collage di già sentito, a partire dall’intro che sa di Mad World nella versione di Gary Jules. Il finale fa pendere l’ago della bilancia su un risultato positivo, con Tom Barman che ripete su Le Blues Polaire l’esperimento riuscitissimo dell’ultimo disco su Quatre Mains, un alternato recitato/cantato in francese, che per un gruppo fiammingo è una cosa abbastanza significativa a livello sociale in relazione all’attuale status quo belga (sebbene già in passato Barman abbia precisato che la scelta è puramente artistica).

Al di là della lunga attesa, non c’erano aspettative spasmodiche su questo disco, gli oltre trent’anni di carriera dei dEUS sono stati ben più che valorosi. Eppur si sente che Barman e soci han dovuto grattare un bel po’ sul fondo del barile per cumulare 55’ di registrazione, che ne fa il loro disco più lungo dai tempi di “Pocket Revolution”: è mancato il coraggio di scartare quei 3-4 pezzi di troppoed arrivare con un ascolto più compatto e frizzantino come negli ultimi 2 dischi, dove però era presente qualche punta d’ispirazione più marcata.

I dischi dei dEUS necessitano di parecchi ascolti per entrare sottopelle, capiremo tra qualche mese se “How To Replace It è effettivamente l’episodio più debole della loro discografia.

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