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“The Kick Inside”, il concepimento di Kate Bush

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Cosa hanno in comune tra loro Aristotele, Darwin e Freud? Apparentemente nulla, visto che parliamo di studiosi appartenenti a discipline, paesi ed epoche diverse. Eppure condividono un elemento, che li avvicina nella passione che hanno impiegato a studiarlo: la socialità. Per il primo – al quale viene ricondotta la famosa definizione di animale sociale – l’uomo tende ad aggregarsi con altri individui e a costituirsi in società; il secondo, che partiva dall’osservazione di un branco, sosteneva che ciascun animale sente il bisogno di stare vicino ai propri simili per ottenere aiuto e difesa; il terzo teorizzava la giustizia sociale attraverso il senso del dovere collettivo.

Nella seconda metà degli anni ’70, l’Inghilterra che aveva vissuto i fasti della stagione prog, dei Pink Floyd e che adesso aveva le strade divise a metà tra le esagerazioni punk e i lustrini del glam, viveva un’epocale fase di reset socio-culturale. Socialità, appunto: si usciva in strada e ci si aggregava a un gruppo o all’altro a seconda che le intenzioni fossero di protesta sociale o di non volersi prendere troppo sul serio.

In quegli anni, alla St Joseph’s Convent Grammar School di Abbey Wood – sud est di Londra – è iscritta Catherine Bush, per tutti Kate, una ragazza perfettamente allineata alla passione che tutta la sua famiglia ha per la musica. Suo padre Robert è un pianista dilettante, sua madre studia danza irlandese essendo originaria della Contea di Waterford, mentre i suoi fratelli sono attivi nella scena folk locale. Kate non è come loro, nel senso che non si limita a strimpellare il piano per suonare qualche inno religioso alle feste parrocchiali. Lei è molto più avanti: fin da subito, senza avere nessuna nozione teorica, mostra un innato talento nel ricercare particolari combinazioni di note, soprattutto al pianoforte, che poi mette insieme creando prototipi di canzoni. 

Robert ne intuisce subito le capacità e registra diverse di quelle composizioni. Quando il numero si fa elevato – circa una cinquantina – capisce che quella di Kate non è una semplice passione, ma una dote naturale che può trasformarla in un’artista vera e propria. Quelle musiche, tuttavia, non seguono gli standard dell’epoca. Sono aliene rispetto alle varie declinazioni che il rock assume in quegli anni: non appare casuale la scelta delle varie case discografiche di rifiutare qualsiasi discorso relativo alla produzione di un eventuale disco di Kate.

Tuttavia, gli spiriti degli studiosi del passato, quelli dell’aggregazione e della giustizia sociale, non restano a guardare. Quei nastri prima o poi devono finire nelle mani – e nelle orecchie – giuste. Ci vuole qualcuno in grado di intuire che quella non è musica buona per quei tempi, ma lo sarà per i successivi vent’anni. Quel qualcuno è Ricky Hopper, un amico di Robert che però conosce anche David Gilmour. Il passaggio di mani è rapido: Hopper consegna le demo al chitarrista dei Pink Floyd, che avvia il nastro ed ascolta, restando senza parole. E’ impressionato dalla capacità che ha quella ragazzina di scrivere testi, ma soprattutto dalla sua estensione vocale. 

David decide quindi di pagare la produzione professionale di tre pezzi tra quelli incisi da Kate, affidando il lavoro a Andrew Powell, il produttore dei Floyd in quel periodo impegnati nelle registrazioni di “Wish You Were Here” a Abbey Road. La produzione così compiuta viene impacchettata e consegnata direttamente nelle mani di Terry Slater, dirigente EMI – con cui i quattro di Londra erano sotto contratto – che però ha un timore: Kate ha 16 anni, se il suo disco avrà successo rischia di gestirlo male, al contrario rischia di deprimersi e non scrivere più. Alla firma viene così inserita una clausola insolita per una casa discografica: a Kate viene dato un compenso, ma quei soldi deve usarli per studiare arti espressive. A proposito di socialità, gli insegnanti non vengono scelti a caso: studia danza interpretativa da Lindsay Kemp – colui che costruì intorno a David Bowie il personaggio di Ziggy Stardust – e mimo da Adam Darius. Dopo aver completato i cicli didattici e aver aggiunto nuovi pezzi ai migliori già scritti, giunge il tanto atteso momento della pubblicazione del suo primo disco.

Il concepimento di “The Kick Inside” è un gioco di contrapposizioni. Oltre ad essere in possesso di una voce straordinaria e di doti compositive fuori dal comune, Kate è anche una testa pensante. Si guarda indietro, fissando lo sguardo su Carole King per stigmatizzare il suo modo di fare musica, così dolce, “but it doesn’t push it on you”. È una musica bellissima ma che non coinvolge, inserita in un panorama dove i colleghi uomini sono perfettamente in grado di farlo. Ecco, la sua intenzione è quella di intromettersi nel discorso per dire la sua.   

L’inizio segue gli stilemi del buon vecchio prog, ma con un aggiornamento di sonorità notevole, qualcosa che proietta il genere direttamente – e inaspettatamente – negli anni ’80. Moving (ispirata al canto delle balene) e The Saxophone Song si leggono come un unico titolo, una sorta di suite in due tempi, che apre le porte allo slow-rock mischiato alla chitarra funky di Strange Phenomena. Arrivati a quel punto, Kite è una virata ancora una volta spiazzante verso inesplorati sentieri rock in tempi dispari, un proto-reggae-rock che inizia a rendere l’idea delle intenzioni e soprattutto dell’enorme talento espressivo do cui Kate dispone. Ci si abitua in qualche modo a quelle sonorità incalzanti? Neanche per sogno: arriva The Man With The Child In His Eyes, una dolcissima ballad – probabilmente dedicata al primo fidanzato Steve Blacknell – dominata da piano e violini, presi per mano e portati nella stratosfera dalla voce di Kate, che così passa da registri vicini alla lirica a un canto quasi da ninna nanna.

Ci sono molti modi per chiudere il lato A di un disco, Kate sceglie di infilarci un capolavoro: Wuthering Heights, singolo che anticipa l’uscita dell’album, è uno dei pezzi più evocativi e identificativi di un’artista nell’intera storia della musica. E’ nato in una data precisa, la notte del 5 marzo del 1977, quando Kate accendendo la tv si imbatté nel riadattamento che la BBC dieci anni prima aveva fatto dell’omonimo romanzo di  Emily Brontë, noto da noi come “Cime Tempestose”. Finito di vedere il film, Kate iniziò a scrivere il pezzo e lo finì in poche ore, a notte fonda. Aveva solo 19 anni.

Il lato B si apre con James And The Cold Gun, che strizza l’occhio all’ultimo miglio del filone punk britannico, un inafferrabile aggancio che precede Feel It, pezzo monumentale perché scarno, completamente spogliato di tutta l’impalcatura sonora ascoltata fino a quel momento e che consegna al mixer le sole due tracce di voce e piano. Di nuovo atmosfere barocche da prog prima maniera in Oh To Be In Love, un passaggio obbligato verso L’Amour Looks Something Like You, una ballad cantata ancora una volta in modo sublime su diverse ottave e che fa da preludio a Them Heavy People, dove viaggiando all’indietro si riavvolge il nastro, parlando di insegnamenti (religiosi) ricevuti in tenera età. Il saluto finale arriva con la spensierata Room For The Life, anticamera della title track, un’eterea composizione che parla di incesto e dove ai piedi della vocalità di Kate si adagiano l’inseparabile piano e gli archi. 

È proprio dall’ultimo afflato del disco che bisogna partire per capire la vastità del primo lavoro di Kate Bush. Una vastità culturale e musicale, che nelle idee e nell’esecuzione dei brani partono da un concetto ancestrale e al contempo eterno: i calcetti che il feto dà nel grembo materno rappresentano l’inizio della vita, un processo di continuazione della specie che si ripete ogni volta in modo rassicurante e sorprendente. A conti fatti, tuttavia, la vera sorpresa diventa Kate stessa, che si impone da subito a livello internazionale – con maggior fatica negli Stati Uniti – semplicemente portando in scena se stessa. 

Ma è una semplicità paradossale perché la sola Kate, non ancora ventenne, sfoggia un enorme bagaglio culturale formato da classici della letteratura, scienze, psicologia umana e introspezione spirituale. In rapida successione Kate sfornerà cinque album uno più bello dell’altro, l’ultimo dei quali sarà “Hounds Of Love”, un altro piccolo capolavoro. Un periodo dorato, che la consacrerà pian piano come cantautrice, musicista e produttrice e la incastonerà come un diamante nel già ricco panorama britannico della prima metà degli anni ’80. 

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