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“Either/Or”: l’originale aut-aut di Elliott Smith fra Beatles e Dylan

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Nel 1997 Bob Dylan pubblicò “Time Out of Mind”, un disco che è stato definito «veramente Western, zeppo di villaggi fantasma e caratterizzato da cattive condizioni meteorologiche». Città spettrali e maltempo possono descrivere bene anche le canzoni di Elliott Smith: molte sono infestate, molte sono nuvolose e nebbiose, come la Portland in cui hanno visto la luce. William Todd Schultz, nel suo bel libro Torment Saint. The life of Elliott Smith, scrive che non è un caso se Smith elesse proprio Dylan come nume tutelare del suo pantheon.

Il 1997 per Elliott è stato una storia di due città (Portland e New York) e fu caratterizzato da due momenti: il migliore e il peggiore della sua vita. Migliore nei termini della produzione musicale, incarnata dal disco pubblicato il 25 Febbraio 1997 per l’etichetta Kill Rock Stars – quel sublime guazzabuglio intitolato “Either/Or”; peggiore dal punto di vista delle condizioni psicologiche, in balìa dell’alcool e di una depressione che si faceva ogni giorno più tenebrosa. In termini vagamente romantici: mentre la musica spiccava il volo, la persona cadeva.

Dal ’96 al ’97 la produttività di Elliott Smith è stata impressionante. Era in uno stato che gli psicologi della creatività avrebbero definito uno “stato di flow”: in meno di un anno ha scritto o registrato le canzoni che lo hanno spedito nella sua personalissima stratosfera. E se una parte di sé stava iniziando a riconoscersi delle doti di scrittura e composizione, l’altra parte si palesava sotto le spoglie di un implacabile detrattore, la cui presenza era resa necessaria dal fatto che ogni  sua opera fosse assiomaticamente sospetta, o quanto meno imperfetta; per Elliott, infatti, era difficile giudicare i suoi brani. Ci sono stati alcuni momenti in cui ha pensato che si trattasse solo d’immondizia; anche perché, a differenza di Dylan, Smith non è mai riuscito a ridimensionare la maggior parte dei giudizi sul suo conto: molte persone (che spesso non lo conoscevano, o che lo conoscevano solo tramite le sue canzoni) vedevano in lui il classico “cantastorie tormentato”, la pop star esistenzialista ossessionata dalla morte, l’avatar di una Portland tristemente grigia. 

IIn ogni caso non era una questione di opinioni o aspettative altrui. Il conflitto era tutto interno, uno scontro fra autentica auto-definizione e gioco di ruolo. A chi gli chiedeva cosa pensasse riguardo ai doveri di un artista, nel 1997 Elliott avrebbe risposto: «Devi andare là fuori e mostrare com’è essere una persona. Potrebbe essere piacevole o spiacevole, ma io mostrerò cosa significa essere una persona». 

Senza addentrarsi nei meandri del suo mito, è possibile sostenere che, a differenza degli esseri umani privi di un’inclinazione saturnina, Elliott Smith si sia semplicemente accorto che alcune sue esperienze esigevano di essere documentate, portandolo così a scrivere delle canzoni che raccontavano quelle esperienze, sapientemente trasfigurate per mezzo di suoni e parole che implicavano preoccupazioni profonde – e non documentabili in altro modo.

Pictures of Me, la quinta traccia di “Either/Or”, è un esempio del tentativo di ridimensionare la retorica che voleva mitizzare il suo essere saturnino, un rifiuto di quei giudizi precedentemente citati. Registrata nel 1996, il brano ha assunto diverse forme prima di cristallizzarsi nella versione del disco: a testimonianza dei numerosi tentativi di resa, Elliott nel primo verso scrive «Start, stop, and start». La sua ambivalenza raggiunge il punto d’apice in questa canzone, musicalmente semplice, ma liricamente complessa (alcuni critici musicali scrivevano: «Don’t let the Beatlesesque bounce lull you […] This candy apple has a razor in it»); attraverso le parole di questo testo, infatti, Smith prende posizione nei confronti di quelle istantanee che avevano la pretesa di definire la sua identità dall’esterno, immagini capaci di assiderarlo, perché, anche se sapeva che si trattava di immagini completamente sbagliate, non poteva evitare di vederle. Ma Elliott conosce la sua sorte: finirà per cadere vittima dei suoi «own dirty tricks», ovvero il desiderio di successo e la sua simultanea negazione. È come se questo brano marcasse il centro gravitazionale dell’album, perché la sua ambivalenza ci ricorda che il titolo “Either/Or” è un riferimento letterale all’opera del filosofo danese Søren Kierkegaard pubblicata nel 1843, Enten–Eller (in latino: Aut–Aut); difatti, Either–Or (la sua traduzione in inglese) delinea una teoria dell’esistenza umana caratterizzata dalla distinzione tra uno stile di vita essenzialmente edonistico ed estetico, e un modo di vivere etico che si fonda su impegno e responsabilità individuale. Con questo saggio Kierkegaard tenta di rispondere alla domanda delle domande morali: «Come dovremmo vivere?». Un quesito evidentemente caro anche ad Elliott Smith.

Le tonalità ovattate e sfocate di Speed Trials aprono le danze di “Either/Or”. Questa traccia si sarebbe trovata più a suo agio nei lavori precedenti (“Roman Candle” e l’omonimo “Elliott Smith”), a dimostrazione di quanto l’album del ’97 rappresenti un ponte tra l’oscurità lo-fi degli esordi e la brillantezza acustica dei successivi lavori in studio (“XO” e “Figure 8”). 

Alameda è il secondo brano dell’album, e la sua inaspettata qualità audio, in netto contrasto con quella di Speed Trials, sveglia l’ascoltatore da un pisolino del tardo pomeriggio, proiettandolo in una mattinata radiosa e tagliente. La sintonizzazione sulle frequenze di Alameda è paragonabile alla sensazione che si prova quando, ad una festa, ci si imbatte in un ospite totalmente inaspettato e si scopre che, in realtà, è la persona più interessante del party.

Bob Dylan una volta disse che le sonorità di “Blonde on Blonde” erano esattamente quelle che lui percepiva nel mondo; allo stesso modo, secondo Schultz, le sonorità di Alameda rappresentano il modo in cui Smith udiva il mondo. La canzone parla di legami, rapporti, e la preoccupazione principale di Elliott è la sua protezione personale, come canta nei ritornelli del brano. Certo, aveva  un gran bisogno di essere circondato da persone che si prendessero cura di lui, ma è il primo a riconoscere che, quando si trattava di impegnarsi per mantenere le connessioni nel tempo, il suo «primo errore» è stato quello di «pensare di potersi relazionare». Qualunque cosa potesse funzionare si sarebbe certamente rotta, mostrando la validità dell’assioma emotivo che asserisce “Non contare sull’amore. E se per caso lo incontri, distruggilo prima che distrugga te” – parafrasando il finale di Alameda. È come se la vittima, per proteggersi, assumesse il ruolo di vittimizzatore. Così, in No Name No. 5, le sue unghie sono mangiate, e la sua testa è «piena del passato», come se stesse deducendo la formula sopraccitata, una legge interiore a cui Elliott Smith è timorosamente obbligato. E lo sa bene, visto che nei versi di No Name No. 5 scrive: «Don’t get upset about it / No, not anymore / There’s nothing wrong / that wasn’t wrong before».

Either/Or” contiene anche i suoi brani più conosciuti: Angeles, Between the Bars, Say Yes. Se il primo pezzo offre un saggio del suo virtuosismo chitarristico, le altre due tracce sono ancora canzoni sull’amore o, più in generale, sulla dipendenza da qualsiasi tipo di relazione; Between the Bars, scritta mentre alla televisione scorreva una puntata in muto di Xena. la Principessa Guerriera, parla di un’azione che è contemporaneamente un salvataggio e una fuga: lui e la ragazza che bacerà «between the bars» si separeranno, ed è proprio durante l’atto di sconnessione che la ragazza rivelerà la sua massima bellezza. A proposito di Say Yes, invece, mi limiterò a riportare un commento dello stesso Elliott: «È un brano follemente ottimista». (Come lo sarà, in parte, Happiness in “Figure 8”). Egli ha vissuto reali momenti di amore e felicità, che però si sono rivelati  essere momentanei; a discapito delle apparenze, difatti, Say Yes cela un’angoscia che accompagnerà sempre la vita di Smith: al netto delle sue difficoltà psicologiche, troverà mai il vero amore? Che cosa può amare veramente? Potrà mai durare il suo amore? Sono domande che non trovano risposta all’interno della traccia. La risposta, se mai, si può trovare al di fuori del disco: basti ficcare il naso nelle pieghe delle sue relazioni con JJ Gonson, Joanna Bolme e Jennifer Chiba. Una risposta amara.

Non mi dilungo sulle altre tracce dell’album – l’agrodolce Ballad of Big Nothing, la sottovalutata Punch and Judy, la cupa 2:45 AM, la rassegnata Rose Parade e la distorta Cupid’s Trick – perché altrimenti sarebbe corretto citare anche le numerosissime demo di quel periodo (scartate e confluite, per fortuna dell’internet, nella magica raccolta Gran Mal: Studio Rarities). 

Voglio solo soffermarmi su un ultimo aspetto, un tema che era costante nelle sue interviste: gli chiedevano spesso perché le sue canzoni fossero così afflitte, o più semplicemente perché alcuni ascoltatori le trovassero così deprimenti. Come se l’unica tematica degna di interesse fosse sapere se la sua vita era addolorata come lo erano i suoi brani. Sostenendo che le creazioni artistiche non possono prescindere dai sentimenti dei rispettivi creatori, Elliott Smith diceva: «Happy songs are great when they come along. I mean, they haven’t come along a lot […] It’s a big game to play, trying to make something that’s mainstream enough and still human». Essere mainstream avrebbe significato eliminare la complessità e l’oscurità insite nello spettro della sua emotività e quindi, in altre parole, mentire; essere (artisticamente) umani era una questione di far fluire sé stesso nelle sue opere, la sua gamma di emozioni. E quando Elliott riusciva a fluire attraverso i suoi testi e le sue melodie, il ventaglio si restringeva intorno a sentimenti negativi: dolore, fallimento, disconnessione.

A proposito di connessione/disconnessione, egli paragonava le interazioni umane agli atomi: «Atoms are mostly space, there’s very little material there. They appear to be mostly material but it’s actually just space. It doesn’t take much to make something seem real but on closer inspection is very empty».

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