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Fake Names – Expendables

2023 - Epitaph Records
garage punk

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Tracklist

1. Targets
2. Expendables
3. Delete Myself
4. Go
5. Don’t Blame Yourself
6. Can’t Take It
7. Damage Done
8. Madtown
9. Caught In Between
10. Too Little Too Late


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Basta il riff di apertura di Targets per capire che i Fake Names non hanno deciso, nonostante questa formazione che urla post ai quattro venti e a maggior ragione con l’ingresso in formazione di Brandan “ilbatteristadeiFugazi” Canty, di restare legati alle proprie origini, e di gruppo e punk. Anzi, rispetto al debutto il suono si è fatto ancor più retrospettivo, se per retrospettivo intendiamo, per l’appunto, “originario”, proprio di un’epoca d’oro che possiamo solo guardare e, alcuni, rimpiangere.

Non me la sento di contraddire in toto Brian Baker – uno di quelli che l’hc lo ha fatto con mani e corde di chitarra – quando dice che lui e Michael Hampton (di quegli Embrace mai davvero dimenticati ma nemmeno esaltati il giusto) scrivono canzoni pop mentre Dennis “Refused” Lyxzén parla/canta/si sgola pensando alla rivoluzione, solo che c’è qualcosa che non va. Se l’omonimo full length sprizzava melodie a presa rapida da tutte le parti in perfetto equilibrio con una certa urgenza, lo stesso non posso dirlo del nuovo “Expendables”.

Sarebbe troppo facile dire “Con una formazione simile cascare di faccia non è possibile”, perché non contano nomi e curricula quando ci si trova in sala prove, c’è solo quel momento specifico in cui decidi cosa sta dove ma, soprattutto, come. Non che il secondo album di questo dream team sia totalmente privo di melodia e sing along su cui sgolarsi a pugni chiuso, solo non sono sufficienti. Non abbastanza come numero, insufficienti come potenza, con la vena power pop dell’esordio quasi completamente scalzata da quella garage o, comunque, non dosate, in disequilibrio totale. Il suono sicuramente primitivo fa la sua figura, nelle intenzioni, ma non resta appiccicato addosso per poi abradere la pelle come dovrebbe.

Sembrano quasi stanchi quando dovrebbero spiccare il volo, ad esempio in Can’t Take It, che ha premesse d’oro disattese e affonda sul ritornello, peggio ancora nel doppio colpo della title track e Delete Yourself, ché non è tanto la scontentezza dato che giochi col passato, è proprio la debolezza che sembra pervadere i suoni e gli strumenti, compresa la voce. Proprio il sound è debilitato da uno squilibrio difficile da colmare, con le chitarre indietro a comparire a spot spesso sepolte dal basso (da ex-bassista dovrei essere contento, ma no, non è questo il contesto per farne un punto cardine) e quasi mai incisive.

Quando si decidono a buttar fuori la testa il passo cambia (anche se ormai metà del disco è totalmente sprecata) blueseggiando Madtown (perché questa non è un singolo?), friggendo nel lerciume garage la conclusiva Too Little Too Late e lanciando nello spazio il ritornello abnorme e badreligioniano di Damage Done, forse il pezzo migliore assieme a Caught In Between, quasi una sterzata post-punk dove non dovrebbe essercene un goccio invece sbuca e fa ridestare dal torpore.

La rivoluzione è sempre nell’aria e i testi sono lì a dimostrarlo, anche se la scontatezza finisce per infettare anche quello che era il cavallo di battaglia del leader di Refused e The (International) Noise Conspiracy che inanella ovvietà una appresso all’altra, ma prima di tutto bisognerebbe darle un trampolino di lancio che non rischi di spezzarsi a metà della rincorsa, poco prima del salto, nella realtà come in musica, non meno reale della vita da cui prende spunto.

Questa è, a pieno titolo, un’occasione sprecata.

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