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Wes Borland – The Mutiny Of The Starbarge

2023 - Flying Head Music
kosmische post rock

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Tracklist

1. We Are The Airlock

2. Mounting The Husk

3. Lexicon Galactus

4. Don't Believe In Trees

5. A Large Magnetic Discharge From The Starbarge

6. The Horror Is Nominal

7. Your Very Own Harpoon

8. Walking The Great Ring

9. The Flagship Obliteron


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Sono davvero pochi i musicisti appartenuti, o appartenenti, alla progenie nu-metal delle origini – che ora potremmo pure definire old school quasi fosse un ossimoro – ad aver intrapreso una carriera solista, meno ancora una carriera solista degna di nota: Corey Taylor (per cortesia), Jonathan Davis (ci hai provato, ma…), Ryan Martinie (non proprio solista ma interessanti viaggi nel prog per lo più ignorati, ché ai numetallari ‘sta roba mica interessa), Fieldy (a me “Fieldy’s Dreams”, col suo essere gangsta rappuso sbruffone piace ma è tutto tranne che un buon disco), Brendon Boyd (fallimento Incubus, fallimento da solo, lascia perdere), Head (affidarsi al buon signore e a musicisti di alto livello non basta), Sid Wilson (il raver degli Slipknot ci ha preso in pieno, soprattutto nei panni di DJ Starscream). Altri non me ne vengono in mente. A parte Wes Borland, ché lui gioca in un altro campionato da tipo sempre.

Nato chitarrista di una delle realtà più “bestie” di tutto il genere e rimasto invischiato nelle trame mentali del partner in crime Fred Durst non ha mai nascosto il suo ben poco latente amore per tutta quella musica che andava al di là di basi hip hop steroidate da chitarre, cambiando in qualche modo le regole del gioco che vuole i chitarristi nu-metal come semplice accompagnamento, imballando i brani dei Biscotti Molli di riff storti, ascrivibili al lavoro di Adam Jones più di qualsiasi altro suo collega (a parte i Flaw, ma quella è rapina) ed evidentemente debitori delle composizioni di Trent Reznor. Negli anni, infatti, non appena ha potuto ha levato le tende creando situazioni di altro tipo, a volte ridicolmente geniali, come il primo album dei Big Dumb Face che resta un unicum totale e inarrivabile, altre industriali fino al midollo, i suoi Black Light Burns con cui avrebbe potuto osare molto di più e quei The Damning Well condivisi con Josh Freese, Danny Lohner e Richard Patrick (!!!) che disgraziatamente non hanno mai davvero visto la luce se non nella OST di “Underworld”, salvo poi tornare alla corte di Durst con risultati altalenanti ma che nulla tolgono al suo stato di grazia di chitarrista anomalo in mezzo a gente che è rimasta inchiodata al 1998.

Lui, che inchiodato non è, dal 2016 va avanti a pubblicare dischi a suo nome e ogni volta tira fuori dal mazzo di carte (magiche intrise di magia nera, ovvio) roba che per i più attenti era ovvio fosse nascosta lì, tra corde, dita e distorsori di diversa specie, ma che non potesse trovare il giusto sfogo dovendo fare da contraltare a Daddy Fred. Già con “Crystal Machete” si era compreso che il punto focale borlandiano si sarebbe spinto in territori al di là di certi immaginari, molto più moebiusiani, roba da Incal musicato, e stessa cosa tre anni fa con “The Astral Hand”, pur meno centrato, mentre “The Mutiny Of The Starbarge” ne è evoluzione in completezza che nulla lascia al caso. A differenza dei suoi predecessori, sebbene notevoli, è una sorta di concept in narrazione per immagini e sensi, linearità di suono (sempre e per sempre riconoscibile) e sentimenti lanciati nello spazio profondo, perché è lì che si svolge il tutto.

Rarefatto e tooliano fin nei più reconditi spazi del proprio DNA, l’album è snodo tra galassie melodiche in attesa, lasciate ad orbitare sopra la testa di esseri colossali persi nei recessi dell’universo. Lunghi stralci kosmiche elettrici sospinti dal vento di riff cristallini e che spesso e volentieri incontrano soluzioni amare e perlacee (il pianoforte reznoriano di Lexicon Glactus), giustapposizioni elettroniche a là Lustmord, assalti motorikrauti col perno piantato dritto nel funk gonfiato da inviluppi sintetici pazzoidi (la doppietta A Large Magnetic Discharge From The Starbarge e The Horror Is Nominal grida tanto Neu! quanto Can), espulsioni electro nella galassia che si ingigantiscono passo passo (Walking The Great Ring e The Flagship Obliteron, impreziosite dagli archi del sempre presente fratello Scott), deliri tribali, quasi raga alieni (Your Very Own Harpoon), sono tutte cose che rendono l’album materia seriamente extraterrestre se confrontata con quanto di norma viene in mente parlando di Wes Borland.

Peccato abbia il già segnato destino di essere un album marginale, come tanti altri che meriterebbero qualcosa in più, giusto per la loro peculiarità e l’assurda provenienza.

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