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“The Whale”, il nuovo film di Darren Aronofsky ci porta nel mare del male di vivere

“Ahi-ahi, lo sto rifacendo” penso mentre chiudo il portone di casa e scendo le scale “sto per andare a vedere l’ultimo film di Darren Aronofsky.”

Eppure dopo Madre! mi ero ripromessa di non farlo più ma era successo anche dopo Il Cigno Nero, Noah e senza dubbio dopo Requiem for a Dream e così via a parte per The Wrestler, uno tra i miei film preferiti della vita. Eppure eccomi lì, sotto l’acqua, raggiungo il cinema, con un certo imbarazzo compro i biglietti, faccio due chiacchiere e poi scelgo il posto migliore per vedere lo spettacolo. E le luci si spengono e così anche le voci delle persone nella sala.

Il film parte con una mazzata: in videoconferenza una guida vocale istruisce gli studenti su come fare didatticamente il proprio dovere, la voce confidenziale e pacifica è del professore che a differenza di tutti ha la webcam spenta, assieme alle immagini parte la musica onnipresente e conduttrice sentimentale di Rob Simonsen che si interseca alle immagini casalinghe tramite temi marini creando così una certa, prepotente atmosfera surreale.

Il professore di cui sopra è il protagonista, Charlie un uomo americano obeso interpretato da Brendan Fraser. Intorno a lui ruoteranno la casa e altri personaggi che si contano sulle dita di una mano come da sempre (o quasi) ci ha abituati Darren Aronofsky nei suoi fin troppo folli film. Non posso certo raccontarvi la storia o nemmeno accennarvela perché credo che questa sia una pellicola di una certa importanza e che ognuno di noi dovrebbe vedere prima o poi, per apprezzarla, detestarla o rimanerne interdetto.

Si affrontano i temi sociali più importanti di questo nostro periodo storico, primo su tutti la vergogna di essere sé stessi. Vergogna che diviene rabbia, paura, inadeguatezza ed autodistruzione che colpisce nel profondo le persone emotivamente intelligenti. In The Whale c’è un male di vivere fortissimo, un contrasto mortificante tra la società del consumo e quella -persa – degli affetti, dove l’importanza dell’apparire come qualcun altro vuole fa sì che l’individuo si trascini verso l’Ade nella maniera più lenta e squallida possibile, perché quando si è incapaci di vivere può esserci una punizione migliore? Non sta a noi giudicare le scelte altrui, ma forse è giusto chiedersi sempre cosa faremmo qualora ci capitasse ciò che tendiamo a criticare con supponenza e chiedercelo intimamente, senza influenze morali.

In questo film si affrontano anche temi politici che per adesso non ci riguardano ancora appieno come avviene invece negli USA: possiamo scegliere chi favorire economicamente, noi o chi si è procreato, comunque esso od essa siano?

Questo è un film che mi ha fatto riflettere molto, come altri di Aronofsky, ed è strano scrivere tale frase perché nella pellicola stessa questo punto di vista diviene mantra, seppur riferito alla storia di un libro, Moby Dick/The Whale di Herman Melville (col quale si mischia questo film). Stavolta, sicuramente anche per merito della sceneggiatura originale del drammaturgo Samuel D. Hunter, il regista non ha sfociato in qualche follia senza un preciso perché facendo perdere la pazienza o la credibilità allo spettatore. La follia, anzi, è stata anzi dosata per creare disgusto, rabbia e tristezza, renderci testimoni non coinvolti, costretti a guardare gli accadimento con distacco meditativo per non farsi travolgere da essi, un po’ come fa il Dottor Nowzaradan di Vite al Limite quando ascolta gli strazianti racconti dei suoi pazienti.

Uscita dal cinema sono nuda, un po’ meno astiosa nei confronti del regista ed emozionata dal suono violento degli archi, crudeli nella composizione di Rob Simonsen e che non sono mai riusciti a farmi piangere ma piuttosto ad avere un groppo in gola da rimanerne soffocata.

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