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Interviste

Alla ricerca della materia più pura: intervista ai Bosco Sacro

(c) Michele Canevari

Tra i dischi italiani più interessanti usciti in questo primo trimestre del 2023 c’è sicuramente “Gem” (qui la nostra recensione), album d’esordio dei Bosco Sacro, nuovo progetto composto da Paolo Monti (The Star Pillow, DAIMON), Giulia Parin Zecchin (Julinko), Luca Scotti (Tristan da Cunha) e Francesco Vara (Tristan da Cunha, Altaj). Il disco, firmato Avantgarde Music, è una riflessione sul misticismo della Musica e della Natura, una ricerca di purezza musicale che si basa su coordinate sonore che vanno dall’ambient, al doom, passando per folk e trip-hop. Un continuo infrangersi di onde sonore e di sensazioni in cui immergersi. Ne abbiamo parlato con la band.

Ciao, partiamo dagli inizi. Come vi siete conosciuti, anche se  forse io in realtà lo so ed ho pure un mezzo scoop, almeno per quanto riguarda Paolo e Giulia. È stato forse al Discomfort Dispatch avvenuto a Pisa? Che anno era, ho una pessima memoria ma vorrei dire “io c’ero!” e tirarmela un po’ una volta tanto! 

Francesco Vara: Io e Luca, il batterista, abbiamo un duo ambient/drone/post rock di nome Tristan da Cunha. Durante il lockdown abbiamo avuto modo di collaborare con Julinko, aggiungendo il suo cantato ad un nostro pezzo strumentale per una compilation di Electric Duo Project; vista l’alchimia creatasi in maniera del tutto naturale, abbiamo pensato di creare un progetto ex novo coinvolgendo anche Paolo, nostro amico con il quale abbiamo condiviso molte date e tour con il suo progetto solista The Star Pillow, e che ha prodotto il primo disco dei Tristan da Cunha, “Soçobrar”. Abbiamo iniziato scambiandoci registrazioni e bozze a distanza e, alla fine, eccoci qui.

Paolo Monti: Ciao Sara, Bosco Sacro nasce nel 2020 in seguito ad una collaborazione per una compilation avvenuta tra i Tristan da Cunha e Julinko. I ragazzi si sono trovati bene con la voce di Giulia e Francesco ha chiesto lei di interpretare alcune tracce nuove a cui stava lavorando per un nuovo progetto. Hanno quindi coinvolto anche me e scambiandoci parti a distanza abbiamo assemblato le prime canzoni a cui sono seguite altre musiche composte da me e lavorate insieme nell’unico giorno di prove prima del weekend di registrazioni ad Ottobre 2020. Ricordi bene, ho conosciuto Giulia improvvisando con lei e Joshua (Cult of Terrorism) ad un Discomfort Dispatch a Pisa, se non erro a Novembre o Dicembre 2019. Di quella serata ricordo un’improvvisazione piuttosto profonda e distorta e la voce bassa di Giulia.

A proposito del Discomfort Dispatch, vi va di raccontare cosa sia e cosa si prova ad improvvisare con persone totalmente sconosciute? Se non ricordo male Giulia ha partecipato a diverse date… 

PM: Nonostante conosca Fra da molto tempo e mi abbia sempre invitato dalla prima edizione, non sono mai riuscito a prendervi parte se non unicamente quella sera a Pisa. Prediligo anche altre pratiche di impro, con respiri più ampi, meno parametri o incasellamenti e che coinvolgano anche, ma non esclusivamente, il rumore, rispetto ad esperienze come Discomfort Dispatch o ancora prima Multiversa, la più improntate sul noise. A livello umano invece sono un’occasione stupenda per conoscere molte persone ed in ogni caso confrontarsi con musicisti e contesti disparati.

Giulia Parin Zecchin: Ho partecipato a quell’unica data di Discomfort Dispatch: è un ricordo che ho impresso a fuoco, perché mi ci ero buttata con l’intento di sperimentare con  sola voce senza pormi barriere e lasciando a casa la mia chitarra-scudo. Al di là del risultato specifico ottenuto quel giorno, è stata un’occasione molto importante per liberare il mio approccio canoro e musicale ed emotivo in generale. Non avevo mai partecipato prima a sessioni d’improvvisazione del genere, ed è stata una boccata d’aria fresca: nessuna pretesa, nessun narcisismo, persone aperte a qualsiasi cosa possa esser chiamata suono. Un dettaglio particolare che non scorderò mai: conoscevo Paolo via etere, come The Star Pillow, non c’eravamo mai incontrati né entrati in comunicazione prima d’allora. Durante la nostra session insieme, ricordo di averlo guardato ad un certo punto e di aver avuto la certezza che un giorno avremmo suonato in un progetto comune.Un pensiero che passava e mi ha sfiorata e poi se n’è andato, semplicemente. C’avrebbero pensato i Tristan da Cunha anni dopo a tesser la trama!

Ora vorrei parlare un po’ con Luca perché di questo album sono state proprio le parti di batteria a colpirmi di più cosa che mi capita spesso con i gruppi che hanno un batterista. In genere è difficile che io legga dei questa parte fondamentale nelle band, ma di fatto la parte ritmica almeno per noi occidentali che nelle nostre vite veniamo scanditi dal Tempo è la base di tutto. Come si riesce a fare in modo che il tuo strumento risulti così incredibilmente amalgamato a tutto il resto quasi da condurlo?

Luca Scotti: Io credo che le mie batterie si amalgamino bene nei brani di “Gem” perché negli anni ho imparato a suonare con gli altri. Soprattutto ho imparato ad ascoltare gli altri con cui suono. Questo lo devo molto ai miei compagni  di un progetto nato negli anni passati ed ancora attivo(anche se con meno intensità rispetto al passato). Il progetto in questione si chiama Interstellar Experience, nato per musicare una mostra di quadri dell’artista Ryan Spring Doole (nonché sax e voce degli Interstellar) nel 2015 e proseguito negli anni successivi. Questa band si basa completamente sull’improvvisazione e nell’intesa che si è evoluta tra i suoi componenti, spaziando tra colpi di free jazz e sferzate di drum‘n’bass e rap freestyle. Flussi di libere sonorità. In quelle occasioni dove mi trovavo a suonare con loro, ho dovuto spesso adattare la batteria a suoni  puramente non convenzionali, a strutture non convenzionali, a volte prendendo la guida, altre volte seguendo gli altri strumenti. Un altro fattore che ha forgiato il mio attuale drumming è stata la nascita dei Tristan Da Cunha in cui mi trovo a suonare e comporre brani assieme a Francesco che usa delle tipologie di chitarre molto eteree e allo stesso tempo molto “di peso”; qui mi trovo a ritmare quelle chitarre inserendomi in quel “muro sonoro” e alimentare  tutta quella potenza di suono. Essendo solo in due, “quella chitarra” è il mio unico punto di riferimento. Penso infine che in Bosco Sacro ci sia quella intesa che è nata e si è evoluta con Francesco,  sia allargata a Paolo e Giulia (cosa per nulla scontata). In questo modo è nato il nostro sound, dove all’interno puoi sentire le mie batterie cosi amalgamate come tu le hai percepite. 

Sempre Luca, il Tempo. Per te che cos’è? Ma vorrei girare la domanda anche al resto del Bosco Sacro perché comunque io questo Dio del Tempo l’ho sentito presente in ognuno di voi. 

LS: per me il tempo è un qualcosa a cui noi esseri viventi non possiamo sfuggire, quindi tanto vale goderselo il più lentamente possibile. Magari con “Gem” nelle orecchie e con una birra ghiacciata in mano.

GPZ: Oggi rispondo che il tempo è uno spazio che percepiamo abitato da figure visive o sonore, tattili, olfattive; è la possibilità che abbiamo per creare qualcosa che modifichi il tempo stesso e lo plasmi nella realtà che vogliamo vivere. Domani probabilmente risponderei qualcos’altro, sarò una persona diversa in un tempo diverso.

Parliamo un po’ delle chitarre, sia Francesco che Paolo hanno questo stile post-rock/Shoegaze che a me piace molto, il genere non nasce in Italia ma è qui che a parere mio ha attecchito davvero, soprattutto per quanto riguarda le realtà cosiddette alternative. Ci avete mai fatto caso, come si spiega questa cosa? 

FV: Non riesco sinceramente a generalizzare. Personalmente ho sempre perseguito, sia con la chitarra sia in produzioni meramente da studio, un suono dilatato, profondo, malinconico e allucinato. Per ampliare la gamma di possibilità che può offrire uno strumento come la chitarra, cerco di suonarla con un approccio più “orchestrale” trattando il suono come sezioni di archi e cori.

PM: Non ho mai fatto caso a questa cosa che dici tu, ma ci sta. Per quel che mi riguarda ho sempre considerato la chitarra come uno strumento con cui sviluppare molte più sonorità e trame rispetto a quelle più tradizionali. The Star Pillow nasce proprio per questo nel 2007 e, sebbene negli ultimi album avessi iniziato ad esplorare frequenze più basse, ho deciso di dedicarmi prevalentemente a questo in Bosco Sacro. 

Foto: Michele Canevari

Per Giulia, rimasi fin da subito colpita dalla tua voce e ti ho vista suonare anche da sola come Julinko. Di donne nelle musica, in particolare soliste c’è stato un aumento almeno negli ultimi 10anni, una grandissima soddisfazione considerando quanto meno rispetto agli uomini venissero considerate anche se  spesso erano ideatrici ed arrangiatrci delle band in cui suonavano. Come senti questo tuo ruolo nella musica? 

GPZ: Cara Sara, grazie per le tue parole di supporto. Ho sempre voluto cantare sin da bambina, e sin da bambina ho trovato nella musica rifugio, ristoro, consolazione, soprattutto magia. Il mio ruolo dunque è semplicemente quello di rispondere a questa chiamata, abbracciando gli ostacoli e le opportunità che la strada mi fa incontrare. Simultaneamente, sento anche una forte spinta a comunicare verso l’esterno, comunicare agli altri,  toccare delle corde diafane che facciano risuonare qualcosa di ultraterreno e di viscerale allo stesso tempo, perché è attraverso l’esperienza fornita da mio corpo che posso trasformare delle immagini, delle sensazioni, in vibrazioni, in suono. Da quando ho cominciato a far musica ho sempre ricercato attraverso essa uno stato di elevazione  dalla dimensione terrena; è sempre stato un anelito mistico a guidarmi, anche attraverso vie ombrose. Non ho mai identificato la mia espressività con una fatto di genere, e mentre canto o suono non sono consapevole di essere donna o uomo, mi sento semplicemente una creatura risonante. Il bello dell’arte è proprio questo, lo spazio aperto, il vuoto che ci offre, la possibilità necessaria di sganciarsi dai confini e dai ruoli costruiti da millenni di civiltà, e di collegarsi alla magia della creazione, ogni volta ex-novo. Detto questo, sono molte le cantautrici e le artiste che mi hanno ispirata fortemente e portata su questa strada, ed ogni volta che ai concerti posso condividere del tempo con donne o persone gender fluid oltre che con maschi, cosa frequente, sono molto felice. Mi sento in sorellanza con molte artiste della nostra scena italiana oltre che estera. 

I vostri testi sono quasi tutti in inglese, di cosa parlano e  a cosa è dovuta questa scelta? 

GPZ: I testi sono tutti in inglese tranne uno, Les arbres rampants, scritto e cantato in francese. I titoli riportano anche la lingua italiana, come anche il nome della band. Oltre alle parole scritte ci sono anche molti suoni cantati che non si ricollegano a nessun idioma, sono semplicemente delle aperture al suono, scollegate da una logica di definizione attraverso codici di linguaggio strutturalizzati. Per anni ho studiato in inglese al liceo e all’università ed ancora oggi è la lingua con cui mi è più facile unire suono e significazione diretta ai molti: volevo descrivere degli immaginari vegetali ed elementali che si riconducessero a degli stati emotivi ed esistenziali di abbandono verso una natura riconciliante, vivida, pulsante, brutale e disincantata allo stesso tempo. I testi parlano di resilienza, misericordia, compassione, nigredo, meditazione, illuminazione, dell’esplorazione dell’umana natura e del “selvatico”, inteso come basilare, spontaneo, non sofisticato, “puro”. Il tutto è sorretto dalla convinzione che l’uomo non sia un essere qualitativamente superiore a piante, pietre, acque, agli elementi basici di cui è composto. Implicitamente a “Gem” soggiace uno spirito pan-psichico e naturalista.

Avete suonato tutti sia in Italia che in Europa. Cosa differenzia il pubblico nostrano da quello delle altre nazioni e cosa vi ha colpito?

PM: All’estero ho quasi sempre trovato molta professionalità, ma anche in Italia. Una cosa che continuo ad apprezzare è il silenzio e l’attenzione del pubblico durante l’esecuzione che, talvolta, non sempre, in Italia può venire meno. Un’altra cosa che adoro dell’estero, soprattutto nei paesi del nord Europa e soprattutto quando faccio tour lunghi, è indubbiamente l’orario di inizio dei live al massimo che avviene prima rispetto all’Italia. Del suonare in Italia apprezzo la sua caoticità così come il calore del pubblico, che anche in questo tour con Bosco Sacro sta davvero dimostrandosi parecchio.

Viaggiare sapendo di portare una parte molto intima di voi alle orecchie di altri che tipo di emozioni vi porta?

LM: Mi emoziona poter portare in giro la mia musica, la nostra musica che, per me, ma credo anche per gli altri tre, è una parte molto intima di noi. Fortunatamente non ho problemi condividerla davanti a un pubblico. Quando suono riesco ad alienarmi dal posto in cui sono in quel momento e riesco a concentrarmi facendomi trascinare dal suono che stiamo creando. In questo modo credo di riuscire a comunicare al meglio quella sensazione che provo a chi sta ascoltando.

FV: Per me è la sensazione più bella del mondo e difficilmente potrei chiedere qualcosa di meglio.

PM: Aggiungo che è una vera e propria forma di comunicazione trasversale a linguaggio e forme, ma che attraverso suono e metalinguaggio arriva dove e a chi deve. Per me è terapeutico, liberatorio e mi consente di sentirmi maggiormente connesso alla specie umana

GPZ: Vivo questa dinamica come una cosa fluida, naturale, come la respirazione. Immettere qualcosa e poi espellerlo e via così, è uno scambio. Durante una performance i musicisti non sono gli unici a comunicare ed esprimere sensazioni. Cantare o suonare in pubblico, in comunione con gli altri, è la cosa che mi fa essere presente totalmente nello spazio e nel tempo in cui mi trovo. Mi dona pace e liberazione.

Tra le note su di voi si legge “Ispirati da visioni di vastità sublime e riconciliatrice provenienti dal contatto con la natura e i suoi paesaggi, uniti da un’autentica devozione alla pratica della musica come movimento curativo e liberatorio”, cosa per voi è spirituale nella musica, come la lega alla natura e in che modo vi può ma anche ci può curare?

PM: Per me suonare è vivere e vivere è conoscersi, accettarsi, evolvere ed aprirsi all’altro. Suonare consapevole di ciò diventa una pratica che mi avvicina esclusivamente a certe forme di suono aderenti al mio essere e sentire. Non posso suonare di tutto ecco. Credo sia la dimensione mia più sacra e riconciliatrice con il mondo intero, con me stesso e chi mi circonda. Siamo parte di un tutto, da soli non si è nulla, ogni disagio così come ogni forma di benessere ha una ricaduta nell’altro. Non può esserci conoscenza e rispetto di sé, se non ci si apre all’altro e l’altro sta nella natura a tutti i suoi livelli. Il suono per me è una strada, ma perché lo vivo, non dev’essere così per tutti. Importante è ad un certo punto essere pronti a lasciare andare tutto e pensare seriamente a suicidare più spesso il proprio narcisismo. Questo abbandono è liberatorio e spesso mi sento così quando scendo dal palco.

FV: La musica è natura, ed è anche un linguaggio: è significante e significato. Suonare con qualcuno, per me, è una condivisione di un’intimità estrema perché utilizzo un linguaggio che condensa in un giro, in una nota o in una pausa, un portato gigantesco di sentimenti che a parole difficilmente riuscirei ad esprimere in maniera precisa. Dato che la musica che ci proponiamo è fondamentalmente emotiva, dialogare fra di noi, utilizzando questo registro “linguistico” fatto di emozioni dense, ci ha permesso di dire cose di noi, come singole persone, che non saremmo mai riusciti a verbalizzare.E credo che il comunicare sinceramente, provando a comunicare chi si è davvero, sia l’atto più curativo di tutti.

GPZ: In parte la mia risposta a questa domanda è avvenuta attraverso le precedenti. Non avendo una forma visibile ad occhio nudo, la musica viene creata su fili immaginifici ed emozionali ed è costituita da un corpo vibrazionale concreto che si abbatte o si distende sui nostri sensi, in un modo piuttosto fisico. Per via di questa dualità, è sempre stata per me il mezzo migliore per coniugare pulsazione e spirito, necessità ed anelito, metamorfosi di materia bruta in qualcosa di più rarefatto ed elevato.

Ormai nella musica, almeno fino a qui, è stato inventato tutto eppure noi italiani veniamo spesso accusati di non essere innovativi dai nostri stessi connazionali tralasciando così altre cose importanti come la parte emozionale trasmessa dalla musica, volete dire qualcosa al riguardo?

FV: Il problema è che tanta gente parla di musica ma non la ascolta.

PM: Credo che ciò abbia a che vedere con questa brutta parola chiamata esterofilia. Se si fosse più disponibili ad ascoltare, a scoprire, tralasciando etichette, nomi, stili, ecco forse si sarebbe ancora in grado meravigliarsi e scoprire cose stupende là dove meno te l’aspetti, anche qua in casa. Inoltre, se nostra patria è il mondo intero, quale significato potrebbe mai avere il concetto di paese?  

Foto: Michele Canevari

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