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“Larks’ Tongues in Aspic” dei King Crimson e la nascita di un culto: nessuno era pronto per le lingue di allodola del re cremisi

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Nel mio paese della provincia laziale (4.500 abitanti) esisteva fino a qualche anno fa una band: le “Lingue di Allodola in Gelatina”. La band suonava nelle feste di paese e concluse la sua gloriosa carriera con un concerto nella piazza del municipio che rimarrà nella storia del borgo. Chiaramente, tra i brani che le “Lingue di Allodola in Gelatina” suonavano in quelle occasioni c’erano cose tipo i Pooh e compagnia cantante, perché insomma il pubblico era quello delle grandi occasioni paesane: famiglie al completo dalla nonna ai nipotini che non potevano reggere a lungo le digressioni, che pur c’erano, nel rock anglosassone. Ma il nome della band era quello e il cantante/tastierista lo ripeteva ogni volta che aveva la parola, senza nemmeno stare a spiegare da dove lo avevano preso, evidentemente scettici sulla possibilità che molti in paese fossero in grado di comprendere il riferimento.

Di questa storia ho la mia fetta di merito. Il chitarrista della band era mio nipote il quale, se conosceva i King Crimson lo doveva al fatto che qualche anno prima che lui nascesse, io pre-adolescente avevo portato in famiglia “Larks’ Tongues in Aspic” e le altre opere del re cremisi. Certo colpisce che nel paesello in questione ci fosse un gruppetto di ragazzi che passavano le giornate a deliziarsi le orecchie con Easy Money o The Talking Drum, magari (mi piace pensare) perché fu proprio mio nipote a fargliele conoscere. Fino a decidere di formare una band con quel nome.

Questa storia, a mio parere, dice molto del culto sotterraneo del re Cremisi anche nel nostro paese. Una influenza trasmessasi di generazione in generazione fino ad oggi. Una influenza che non è registrata nelle cronache o nelle classifiche discografiche, ma che viaggia una decade dopo l’altra, senza lasciare traccia, se non nelle orecchie e nei cuori degli adepti al culto. Un culto che attraversa i continenti, dall’Europa, all’Asia, alle Americhe e che non sembra arrestarsi. Un culto chiuso, formato da persone, prevalentemente maschi, che quando si incontrano e si riconoscono, si emozionano come bambini. Mi capita nei posti più impensabili, compreso il mio, all’apparenza, ingessatissimo luogo di lavoro. Ma noi adepti stentiamo a far capire la nostra passione al di fuori del culto. Sappiamo bene i mal di testa che i nostri ascolti crimsoniani procurano a familiari, fidanzate e mogli. Al punto che girano sui social meme come questo:

“Larks’ Tongues in Aspic” è certamente uno degli “awful records” che la signora qui sopra ha in mente. “Vassoi rumorosi, campanelli che suonano, uccellini che cinguettano, voci discrete e risate da clown si intrecciano con chitarre metalliche piene di elettricità statica, ritmi epilettici e linee di violino che vanno dallo splendido allo straziante”. Così Rolling Stone descrive la musica del disco. Più sinteticamente, Jamie Muir la chiamò “Lingue di allodola in gelatina” e Fripp decise di farne il titolo del disco.

Muir veniva dalla “Music Improvisation Company”, l’ensemble capitanata da un purista dell’imprò come Derek Bailey. Il caso vuole che la musica del progetto avesse influenzato l’esordio dei King Crimson nel 1969. In particolare, la lunga improvvisazione (The Dream & The Illusion) che è parte di Moonchild,era stata voluta dall’allora batterista cremisi Michael Giles, dopo avere assistito ad una performance della Company. Nel 1972, scioltasi tra rancori e litigi la formazione di “Islands” (ne parlammo qui), Fripp si rimboccò le maniche per rifondare da capo il re cremisi. Su suggerimento di un amico giornalista, il chitarrista ebbe un incontro musicale con l’istrionico Muir, dal quale uscì impressionato. Tuttavia, qualche mese prima, mentre in tour in America, Fripp aveva incrociato il batterista degli Yes, Bill Bruford, a cui aveva detto che i tempi erano maturi per un suo ingresso alla corte del re cremisi, cosa che il Drummer auspicava da tempo. Dopo Muir, Fripp andò anche da Bruford per suonare qualcosa assieme. Colto da urgente necessità, andò a sistemarsi nel cesso di casa Bruford e, seduto comodo, ebbe la folgorazione: “Pensai all’improvviso: beh, Bill è un batterista meraviglioso ma è forse un po’ troppo quadrato per alcune cose….Allora, pensai a questo matto Jamie Muir, che avevo conosciuto da poco e mi son detto, beh Jamie è un grande batterista ma non è proprio abbastanza quadrato per alcune delle cose che vorrei fare. Così, mentre stavo seduto sul cesso….ho improvvisamente avuto questa precisa idea di usarli tutti e due….e mi sembrò una ficata”.

La line up dei riformati Crimson cominciava quindi dal doppio batterista, un artifizio che si ripeterà negli anni ’90 con la formazione di “Thrak” fino a giungere ai tre batteristi dell’ultima e più recente formazione. Al basso e alla voce fu facile identificare John Wetton, a cui il lavoro era già stato offerto ai tempi di “Islands” e che ora si sentiva pronto al compito, desideroso com’era di trovare spazio per cantare e scrivere canzoni, quel che i Family, la sua band, non gli consentivano. Per il secondo strumento solista, si optò per un cambio netto e innovativo: non più un fiatista come prima, ma un violinista, nella persona di David Cross, visto da Fripp a un provino della sua band per la EG, l’etichetta del re cremisi.

I nuovi King Crimson vennero annunciati alla stampa il 22 luglio 1972 e la notizia principale era l’arrivo di Bruford da una band in quel momento mainstream come gli Yes. Molti si chiedevano cosa spinse il batterista a lasciare una band all’apice del successo. Bruford desiderava recuperare la spontaneità musicale del genere che più amava e su cui si era formato, il jazz: “gli Yes lavoravano ore in sala d’incisione per correggere gli errori, mentre invece bisognerebbe lasciarli sparsi ovunque”.

La nuova formazione iniziò a suonare insieme alla fine di agosto. Ci fu un’apparizione per un programma televisivo tedesco, “Beat-Club”, nel quale la band scelse di suonare tracce fin lì inedite, destinate al prossimo album, nonché una lunga improvvisazione di mezz’ora. Andò in onda solo un estratto di Larks Tongues in Aspic Part One. Oggi però si può vedere l’intera performance (anche in rete), che dà una buona idea di ciò che sarebbe accaduto da lì a qualche mese con “Larks Tongues in Aspic”. L’improvvisazione è uno dei capisaldi della band: Wetton e Bruford sono adepti del jazz-rock che andava di moda in quegli anni (Miles Davis, Mahavishnu Orchestra, Herbie Hancock) e che fornisce le fondamenta della performance. Fripp interviene alternando momenti “heavy” ad arabeschi più eterei; Cross fa sentire la sua voce originale, senza invadere gli spazi degli altri o sembrare mai fuori posto; Muir è semplicemente fuori di testa: un batterista che si alza spesso dallo sgabello per andare a percuotere le cose più bizzarre, nonché vagare per il palco indossando una pelliccia mentre suona con la bocca una trombetta per bicicletta. “Ricordo sempre che sentivo la necessità di provocare Robert perché era molto composto nel suo modo di suonare. Al concerto per la TV ho davvero provato e riprovato a provocarlo” – ricorda il percussionista. E Cross aggiunge: “Il personaggio che Jamie interpretava sul palco non si era mai manifestato nelle prove. Volevo morire la prima volta che lo vidi cominciare le sue buffonate sul palco. Ho pensato che fosse fantastico ma non avevamo idea che lo avrebbe fatto – era completamente inatteso”.

Tornati nel Regno Unito, i cinque cominciarono un tour nel quale non suonarono nulla del materiale dei precedenti 4 dischi del re Cremisi: soltanto roba nuova e improvvisazioni. Come premio alla pazienza dei fan, solo alla fine, nel bis, arrivava Twenty First Century Schizoid Man. La critica era in estasi. Il “New Musical Express” scrisse di un “impatto spirituale” del gruppo, comparabile a quello dei primi Crimson, predicendo (in maniera corretta) che questa volta il potenziale che era sempre stato alla portata della band sarebbe finalmente stato raggiunto in pieno.

I nuovi King Crimson entrarono finalmente ai Command studios il 1 gennaio 1973 per registrare il nuovo disco, dopo un tentativo andato a vuoto ai Wessex studios, nei quali, racconta Fripp “molto presto divenne ovvio che non avrebbe funzionato, specialmente con una doppia batteria. Wessex non poteva trovare il giusto suono di batteria, malgrado gli sforzi”. Pure ai Command non mancarono frustrazioni e difficoltà e passò così anche il mese di gennaio. Il risultato finale “non catturò veramente quello che potevamo fare dal vivo”, racconta Wetton. La band non era soddisfatta di come il disco suonava, ma se ne fece una ragione, fissò la data di uscita a marzo e Il 10 febbraio tornò live, al Marquee di Londra. Dopo il primo concerto, Muir decise di mollare, avendo deciso di dedicarsi all’approfondimento del buddismo e di ritirarsi in un monastero. I Crimson rimasero in 4, ma il disco era pronto e uscì il 23 marzo.

Come già era accaduto nel 1969 con “In the Court of The Crimson King” e come ricapiterà nel 1981 con “Discipline” (ne parlammo qui), nessuno era pronto per la nuova musica del re Cremisi. Il 1973 fu l’anno in cui gli Yes pubblicheranno il pomposo doppio “Tales from Topographic Oceans”, i Pink Floyd poseranno le basi per diventare ricchi sfondati con il levigato e perfetto “The Dark Side of the Moon” e gli ELP, con “Brain Salad Surgery”, davano i primi segnali di deriva megalomane. Con tutto il sacro rispetto, vorrei capire cosa hanno fatto di male i King Crimson per essere accomunati a questi dischi, a questo genere, che sì avevano inventato 4 anni prima. Ma “Larks’ Tongues in Aspic” non aveva nulla a che vedere con tutto ciò che gli altri gruppi “prog” stavano facendo in quel 1973, o a dire il vero, qualunque altro gruppo rock. Con “Larks’ Tongues in Aspic” i King Crimson reinventano ancora una volta la musica. Inventano, tra le altre cose, il Metal, riprendendo il discorso a suo tempo aperto con Twenty First Century Schizoid Man. Il disco è pieno di contrasti tra momenti “forte” e momenti “piano”, anche all’interno della stessa traccia. Cominciando dall’iniziale Larks Tongues in Aspic Part One. Fino all’apoteosi finale di Larks Tongues in Aspic Part Two, una delle tracce iconiche dell’epopea crimsoniana, nota anche per essere stata utilizzata nel film erotico “Emanuelle”. “Cosa sarebbe successo se Jimi Hendrix avesse provato a suonare Stravinskij?”: era la domanda a cui la traccia forniva una risposta.

Ero un adolescente e lo presi in prestito da un amico. La mia prima impressione fu che era uno dei dischi più dinamici che potresti mai ascoltare. Nei primi cinque minuti sei già passato attraverso ogni estremo di volume” – ricorda Steven Wilson. E, allorché nel 2012 si trovò ad affrontare la missione di rimixare il disco, decise di esaltare questo dinamismo: “mi sono avvicinato al lavoro in maniera leggermente differente rispetto a come avevo fatto con i precedenti dischi dei Crimson. Sono stato un po’ meno fedele al disco originale nel senso che sapevo che c’erano cose che potevo fare per indurire il suono un pò, per far in modo che l’album tirasse fuori le palle, per così dire”.

Ed è quindi dall’ascolto del remix (per accedere al quale dovrete mettere mano al portafoglio non essendo disponibile in streaming) che potrete arrivare ad apprezzare in pieno quello che le “Lingue di Allodola in Gelatina” avevano capito in ogni caso (e lo zio pure). Dopo le lunghe peripezie dovute allo scioglimento improvviso della line-up del 1969, i vari cambi di formazione in pochi anni, i tre dischi comunque pregevoli rilasciati tra 1970 e 1971, i King Crimson in quel 1973 erano tornati al massimo splendore. Erano tornati per non fare prigionieri e 50 anni dopo, “Larks’ Tongues in Aspic” si staglia come un gigante nella storia della musica rock. Un gigante che alla sua matura età risulta più fico, originale, attuale e attraente che mai e per nulla invecchiato, a differenza di opere coeve che di ben altro successo commerciale hanno goduto. Probabilmente è il 1973 l’anno in cui nacque il culto del re Cremisi, allorché fan di tutto il mondo assistettero alla ripetizione del miracolo già verificatisi 4 anni prima e si convinsero che bisognava farne una fede.

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