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Depeche Mode – Memento Mori

2023 - Columbia Records / Sony Music
darkwave / synth wave / industrial

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Tracklist

1. My Cosmos Is Mine
2. Wagging Tongue
3. Ghosts Again
4. Don’t Say You Love Me
5. My Favourite Stranger
6. Soul With Me
7. Caroline’s Monkey
8. Before We Drown
9. People Are Good
10. Always You
11. Never Let Me Go
12. Speak To Me


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Dalle mie parti mi hanno soprannominato in molti modi (pezzo di merda non è un soprannome), tra questi c’è “Il Polemico”. Pensando di farmi sgarbo, forse, e invece no. Non solo l’ho accettato, mi sono pure impegnato per esserlo al massimo delle mie possibilità. Quindi perché non cominciare la recensione del nuovo album dei Depeche Mode con una bella polemica?

Per un tempo che ormai potremmo definire “un secolo” i DM e gli U2 sono stati accomunati, più che per similitudini di qualsivoglia tipo (ad esempio condividere i produttori e il fotografo), per il fatto che hanno incarnato un determinato suono “europeista”, quasi fossero una Berlino reincarnata nel corpo di gente d’Oltremanica (e oltre ancora), successori in tal senso di Bowie e Pop, a parte l’aver registrato So Cruel, pezzo gigantesco, per un tributo alla band di Bono Vox, presenza caldeggiata da lui stesso e accettata da Gore e soci con un “perché no?”, che tanto stavano ascoltando “Achtung Baby” in studio con il signor Flood. Fin qui, tutto ok. Quest’anno i due gruppi tornano ognuno con un nuovo album che per i Depeche è seriamente nuovo, mentre per gli U2 è rimestare nel torbido. I primi spingendosi una volta ancora più in là nella propria cosmogonia, i secondi pigri e convinti di far cosa buona a riproporre il proprio pluridecennale (e fino ad un certo punto invincibile) repertorio. Atteggiamenti antitetici che fanno la differenza.

Come già dicevo altrove, sarebbe facile per un progetto con una simile storia alle spalle, ripetersi all’infinito, vivendo di rendita e delle royalties di una canzone o due (o dieci), con tour in cui potrebbero anche solo suonare un “greatest hits” alla cazzo di cane per poi contare i soldi nel backstage attraverso una app, ché mica è il 1982. Nemmeno quando è stato il momento di buttare fuori un disco (per me) poco riuscito (“Sounds Of The Universe”) si sono tirati indietro, andando invece avanti imperterriti, per poi rinascere un’altra volta (“Delta Machine”) e un’altra ancora (“Spirit”). Nemmeno la morte li ha fermati.

La mancanza di Fletch pesa un miliardo di tonnellate, umanamente e artisticamente parlando. Gahan e Gore affrontano la morte accogliendone le conseguenze e creando a partire da essa, anche se inizialmente (ma lo avrete già letto ovunque) l’idea era sorta nel periodo più nero del Covid-19, il memento mori dei nostri tempi. “Memento Mori” sarebbe quindi stato il titolo perfetto a prescindere ma, a questo punto, diventa una questione personale. Un tocco di freddo che dura per sempre. La famosa “partita a scacchi” bergmaniana, che i due riprendono nel video di Ghosts Again, forse uno dei singoli più belli e riusciti dai tempi di quelli (tutti) di “Playing The Angel”, un fiore che si schiude su petali di tastiere e rintocchi materiali e in tutti i suoi quattro minuti non fa che aprirsi ancora di più, fermandosi solo perché deve, ma prima “Faith is sleeping / Lovers, in the end…” e all’unisono “Whisper we’ll be ghosts again”. All’origine del sé, la schiena poggiata sulla lapide. Un pezzo che suonato su un palco come quello di Sanremo che nemmeno i suoni fatti da cani hanno potuto fermare.

Nessuno si sarebbe giocato un secondo singolo spettrale come My Cosmos Is Mine, una messa in guardia, “non toccare il mio mondo, non giocare con la mia mente, il mio cosmo è mio”, contro la guerra, contro gli orrori e le atrocità. Apre il disco, è dissacrante, arcigna, oscura e bestiale, sembra una bestia meccanica che strappa calcinacci dal muro, un grido industriale da parte di coloro che dell’industrial si servirono in tempi remoti e che, poi, lo influenzarono e se ne fecero alfieri. Fanno lo stesso ragionamento sugli slap di People Are Good, picchiano secco, più agile, non meno aggressiva. Sembrano recuperare i propri versi dal passato, dando vita a Don’t Say You Love Me, che non ha nulla a che vedere con It’s No Good, perché questo è un pianto disperato senza brillantini, blues a propulsione gahaniana, voce stentorea e di petto, potentissima, piena e coinvolgente, struggente, un mostro che versa lacrime inginocchiato ai piedi del palco di un night club fantasma, “Tu sarai l’assassino, io il cadavere”. Puoi scrivere qualcosa di più pesante senza rischiare del tuo?

Caroline’s Monkey sembra passare attraverso un filtro di plastica bruciata, col ritornello incastrato tra basso funk e batteria dello stesso materiale del filtro, il duo avvitato su un tono serio (uccide quel “sparire è meglio che fallire”), My Favourite Stranger un pestone sintetico, tirato coi synth come squarci nello specchio in cui ci si osserva, come rifare la copertina di “Damaged” dei Black Flag fotografata in toni seppia, carezze al posto dei pugni che pesano giusto il doppio. Il gospel sacrale di Gore si incarna in Soul With Me, un’isola d’amor black al centro di un lago d’acque gelide e profonde, mentre con le chitarre dilanianti di Never Let Me Go devasta lo spaziotempo unendo epoche distanti l’una dall’altra, e se Always You si accanisce paranoica nella ripetizione la conclusiva Speak To Me è un’aria elegiaca in sospensione su un mare ambient/drone che si increspa e sale fino a inghiottire tutto.

Sì, sono andato molto, molto lungo, ma l’ho trovato necessario per sottolineare che i Depeche Mode si dimostrano ancora una volta bestie d’altra razza rispetto a chiunque venga accostato loro. Si è già letto in giro qualche “nulla di che” e “ma che avranno mai ancora da dire questi?”. Beh, cari miei, tutto. Ma se voi preferite situazioni d’altro tipo, vuote, senza sentimento e che viaggiano su ali di mode di cui ci dimenticheremo tra meno di un anno, buon pro vi faccia. Un po’ per voi mi spiace.

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