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Ascoltare “Camere Separate” di Pier Vittorio Tondelli: quando la parola scritta suona come musica

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Mi piace pensare che libri e dischi scelgano il momento esatto di palesarsi nelle nostre vite: come un bagliore, una epifania luminosa. “Camere Separate” di Pier Vittorio Tondelli era sulla mia scrivania da molto, forse troppo tempo. Poi un giorno l’ho iniziato e riga dopo riga l’ho concluso nel tempo di un giro di disco. Sì, parlo proprio di dischi e musica, perché basta sfogliare qualche pagina dell’ultimo romanzo dell’autore correggese, per rendersi immediatamente conto che leggere “Camere Separate” non è operazione che coinvolge la semplice lettura e i soli occhi. Pagina dopo pagina ti assale la nitida sensazione che le parole emettano suoni.

Quali suoni? – chiederete. Quelli ambient di Brian Eno, che quando l’ascolti sembra le note danzino perennemente una sull’altra, senza muoversi mai, per poi accorgerti, invece, che hanno scavato a fondo e hanno lasciato il segno. E poi c’è il jazz dei Swing Out Sister, il rock dei Deacon Blue, il new wave di Joe Jackson, le composizioni di Steve Reich e Philip Glass. E soprattutto, ci sono gli Smiths e Morrisey. “Oh, I’m so glad to grow older, to move away from those younger years, now I’m in love for the first time”, risuona l’ultima pagina, e sembra davvero di sentire la malinconica voce sussurrata di Morrisey.

Le storie di “Camere Separate” vestono i panni di piccole sinfonie incise sulle pagine, come avessimo di fronte un pentagramma, coi suoi adagi, i suoi lenti, le sue accelerazioni improvvise. Tondelli muove i tasti della macchina da scrivere come fossero quelli bianchi e neri di un pianoforte. Il ritmo incostante della frase riproduce sul foglio un andamento musicale. Le lettere dialogano tra loro e danno vita ad uno spartito invisibile, un mondo creato a colpi di inchiostro e sound. La scrittura è emotiva, nervosa e impaziente. Le regole della sintassi vengono continuamente sovvertite (stilisticamente, è facile fare un parallelo con Jack Kerouac e con le sue pagine scritte risonanti di ritmi urbani e metropolitani) in un’attitudine squisitamente rock: uso anarchico della punteggiatura, ribellione alle regole grammaticali, ricordi passati mescolati al presente narrativo. Tutto è incentrato nell’urgenza del comunicare.

Il rapporto tra Tondelli e la musica è viscerale, imprescindibile, inevitabile. Attraverso i tempi di una composizione musicale si dipana il racconto struggente dell’amore tra Leo e Thomas. La scansione di “Camere Separate” non segue regole classiche. La storia d’amore e solitudine dei due protagonisti non viene articolata in capitoli, bensì in “movimenti”, che si intersecano l’uno nell’altro tra flashback, riflessioni, confessioni, analisi passate presenti e future, nell’osmosi della “memoria del sentimento”.

“Camere separate” è una storia d’amore negata, una storia d’amore qualunque. Al centro del romanzo tondelliano, pubblicato nel 1989, c’è la lunga elaborazione del lutto da parte di Leo. La scomparsa prematura di Thomas (che pare quasi una previsione dell’altrettanto prematura scomparsa dello stesso Pier Vittorio Tondelli, morto a soli 36 anni di AIDS il 16 dicembre 1991, due anni dopo la pubblicazione di “Camere Separate”) divide i due amanti, costringendo Leo ad interrogarsi sulle scelte fatte all’interno della relazione. Lo stratagemma delle “camere separate” ideato da Leo (da cui il titolo!) impone di vivere il loro amore, appunto,  in due camere separate: nessun possesso e nessuna quotidianità logorante, nessuna ferita e nessuno spettro dell’abbandono; soltanto un incontrarsi disordinato e spasmodico, un imparare a vivere la solitudine come “il frutto più completo del loro amore”. Una solitudine in cui c’è spazio per l’altro solo se tenuto a distanza. I movimenti dell’amore dei due uomini sono fatti di una lotta perenne che frammenta, riunisce, separa e ricongiunge (impossibile non pensare ad una delle poesie di Michele Mari tratta da “Cento Poesie d’amore a Ladyhawke”: “il bello era proprio quel punto/ era rimanere nel limbo delle cose sospese/ nella tensione di un permanente principio”). Tale schema voluto dal protagonista e tristemente tollerato da Thomas, sfibrerà inevitabilmente la bellezza del loro sentimento. Quando poi la morte di Thomas entrerà prepotentemente nella vita di Leo, inizierà la “vera” solitudine e il tentativo di fuga dal dolore di un amore incompiuto. Tutte le riflessioni, i viaggi, i flashback che ne deriveranno saranno accompagnati dalla musica. Leo conosce Thomas per caso durante una festa, mentre suona il pianoforte: “Leo si sofferma sul ragazzo al pianoforte accarezzandolo con lo sguardo. Lo indaga, lo scruta. Vede Thomas per la prima volta. E Thomas, come sentisse tutto il peso di quello sguardo, alza la testa fissandolo per una frazione di secondo”. L’incontro successivo avverrà durante un concerto. Leo “si distacca dalla musica” della band che suona I feel love e lo rivede su una balconata del teatro. Le riflessioni dell’infanzia sono intrise di litanie religiose tipiche dei riti celebrati durante le festività cristiane. We can’t live together di Joe Jackson è la registrazione inviata a Thomas nel tentativo di ricucire l’ennesima lacerazione: “Why can’t you be just more like me or me like you, and why can’t one and one just add up to two. But we can’t live together, and we can’t stay apart”. Insieme all’ex Hermann, Leo ascolta “una cassetta di Sandie Shaw con le cuffie inserite nel walkman”.

L’utilizzo della musica in Tondelli non è presente soltanto in “Camere Separate”. Nella raccolta di racconti intitolata “Altri Libertini”, infatti, la musica diventa strumento attraverso cui osservare la realtà, per poi sublimarla sul foglio di carta. Le voci, i suoni e la poetica degli Smiths, che risuonano di Joyce e Sartre, o di cantautori come Bob Dylan, Jim Morrison, Patti Smith, De Gregori, CCCP, De André, e Guccini si rincorrono tra le parole e diventano parte integrante del racconto. Un rapporto simile è rintracciabile anche nel romanzo di Enrico Brizzi, anche lui emiliano come Tondelli, “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”, pubblicato nel 1994. L’uscita dal gruppo a cui si riferisce il titolo e che attraversa tutto il romanzo è un riferimento a John Frusciante, all’epoca ex chitarrista (cfr. la recentissima reunion!) della band americana Red Hot Chili Peppers, che decise di lasciare la band proprio nel momento di maggiore successo. Anche qui la storia d’amore tra i due adolescenti della Bologna anni ’90, Alex D. e Aidi, è pervasa dalla musica. Il liceale diciassettenne Alex ascolta musica rock e punk, ed è il bassista di una piccola band. Indossa una t-shirt dei Ramones, sopra il suo letto ha una foto dei Sex Pistols e possiede un libro sulla band dei Clash. A mio giudizio, la prosa di Brizzi è meno musicale rispetto a quella di Tondelli, ma i riferimenti a storiche band punk-rock diventano strumenti e preziosi indizi per il lettore, anticipandogli l’atteggiamento del giovane protagonista verso la vita, in linea con il nichilismo dei contenuti punk: “Ascolto gli Smiths col walkman, mentre il resto della famiglia fa comunità in salotto”. Come nelle opere tondelliane, anche qui ritroviamo frammenti di canzone nella narrazione: “I capelli le uscivano dal casco e al vecchio Alex era venuta in mente quella canzone degli Smiths, There’s A Light That Never Goes Out, dall’album The Queen Is Dead, quando più o meno dice: non portarmi a casa, stasera, perché non è più la mia casa, ma la loro, e io non sono più il benvenuto. E se un autobus a due piani si schiantasse contro di noi, sarebbe un modo sublime di morire”.

“Camere separate” è un libro irrequieto che trova il suo ritmo nella malinconia e nella tristezza drammatica della separazione, della fuga e del ritorno a sé stessi. La musicalità del testo, la divisione in tre movimenti e la prosa che diventa melodia struggente fanno del romanzo di Pier Vittorio Tondelli un canto sulla perdita e sull’inquietudine del ritrovarsi, un testamento umano che va letto usando le orecchie prima ancora degl’occhi.

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