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“Suede”, la nascita del britpop

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In musica nulla si crea e nulla si distrugge. Un nuovo genere nasce semplicemente dal rimescolamento di elementi del passato in veste nuova, inedita e (ovviamente) interessante alle orecchie del pubblico. Da chi è stato ispirato Tizio quando ha scritto quell’album? Di quale genere ha indirizzato le sorti e quali artisti hanno preso ispirazione da lui? Nell’eterno evolversi di stili e tendenze, la primavera del 1992 è insieme l’acceleratore che spinge in avanti il nuovo decennio e l’ennesima puntata del dibattito sul migliore tra i due mondi: Regno Unito o Stati Uniti?

Negli ultimi tempi, oltreoceano hanno fatto in fretta a dimenticare le sonorità elettroniche degli anni ottanta. Sono tornati in auge i chitarroni: il punk e il metal si sono accoppiati a Seattle generando il grunge, qualcuno in Kentucky ha viaggiato nel tempo approdando nel post-rock, in California vengono rispolverati suoni in bassa fedeltà, mentre a Boston perfino il pop inforca sentieri inaspettati, caratterizzati da eclettismo e sperimentazione. In pochi anni il Nuovo continente sembra un mitra impazzito, una terra puerpera che partorisce figli chiamati Soundgarden, Slint, Pavement, Neutral Milk Hotel e decine di altri in ordine sparso. Di pari passo, al fianco di questa nuova schiera di artisti e band cresce un modo di produrre la musica totalmente svincolato dai parametri di mercato: Sub Pop, Touch & Go, Drag City, Merge Records, sono solo alcuni esempi di come ai quattro angoli del Nordamerica inizi seriamente a farsi strada l’esigenza di musica alternativa, indipendente. In un’unica espressione: indie.

Intendiamoci, non è che gli inglesi accusino il colpo, ma un po’ di tempo per riorganizzarsi se lo prendono. Comprensibile, è dura smaltire una sbornia decennale in cui il post punk è stato sparato in tutte le direzioni possibili, dal dark al gotico, dalla dance alla new wave, dal filone romantico a quello duro e puro di provenienza mancuniana. Nel decennio che va ad iniziare, due sono i punti in comune tra le due anime anglofone del globo terrestre: in primis, il nuovo fenomeno della musica non vuole avere niente a che fare, almeno nell’immediato, con le major; in secondo luogo sbuca dal nulla insieme alla sua etichetta indipendente.  

Ad aprile del ’92, prima ancora di parlare di un disco, di un singolo, in questo caso anche di una casa discografica – che era nata meno di un anno prima, ma non lo sapeva nessuno – la rivista inglese Melody Maker pubblica in copertina una foto che occupa tre quarti di pagina, titolando in rosso “SUEDE / THE BEST NEW BAND IN BRITAIN”. Come fanno questi a sapere che una band che non ha registrato nemmeno una nota sia la migliore in tutto il panorama britannico? Per rispondere a questa domanda è necessario aspettare un mese, quando (finalmente) esce The Drowners,il loro primo singolo. La famigerata nuova label si chiama Nude Records, progetto ideato e realizzato da Saul Galpern, nel cui passato figurano nomi importanti come Simply Red e The Fall.

Il primo pezzo dei Suede, a differenza della critica, non è un successo commerciale. Ha un testo crudo, ambiguo, che in diversi punti fa emergere un io narrante androgino. La band si avvale del bassista Mat Osman e del batterista Simon Gilbert, ma il suo motore sono la chitarra (e la mente) di Bernard Butler e la voce e la presenza scenica di Brett Anderson. Il successo non è immediato semplicemente perché il pubblico non è pronto a così tanti elementi tutti assieme: la struttura è glam-rock, diversi sono i richiami (soprattutto vocali) al David Bowie in versione Ziggy Stardust, la tendenza però è inaspettatamente melodica. I riff sono spigolosi, ma il contrasto con il cantato algido restituisce un insieme che sfiora l’immediata perfezione.

Basta poco al grande pubblico per recepire in modo efficace i Suede. Si fa autunno, poi inverno, ed escono in rapida sequenza altri due singoli, Metal Mickey e Animal Nitrate: è la svolta. Quel glam-garage-punk, sospeso tra Bowie e Kinks – e che ineluttabilmente strizza l’occhio ai gusti statunitensi – conquista anche le classifiche. Nondimeno, sia la stampa, sia coloro che ormai possono considerarsi fans li vedono come un’entità a sé, affrancati da un eventuale arruffianamento grunge. Anche loro parlano di questioni esistenziali – l’identità di genere, la droga, gli abusi sui minori, la violenza domestica – ma lo fanno da star e il pubblico va in delirio come se sul palco ci fosse Michael Jackson. Il delirio talvolta diventa fanatismo, tanto che alcuni presenti ai loro concerti raccontano di ragazzi che si piazzano nelle prime file per strappare i vestiti ai Brett e non per omosessualità, bensì come atto di venerazione artistica nei suoi confronti.   

Quando l’omonimo album di debutto fa il suo ingresso sugli scaffali, i Suede sono gli idoli della stampa specializzata: appaiono su una ventina di copertine in meno di un anno e le recensioni ai loro singoli, concerti, persino ospitate televisive non si contano più. La sostanza del disco – al di là dei pruriginosi pettegolezzi che riguardano l’intimità (soprattutto) di Brett e Bernard – racconta altro ancora. Il successivo singolo, So Young, spacca in quattro la piaga della droga e colpisce al cuore riferendosi all’esperienza dell’overdose vissuta da adolescenti. D’altronde, sostiene Brett, essere giovani è come camminare sul filo del rasoio, basta un passo falso e sei fottuto, come quel suo amico caduto in depressione di cui racconta la vita in Breakdown.

“Suede” è un racconto così intimo che c’è spazio anche per la famiglia, perché essere rockstar vuol dire tutt’altro che avere situazioni tranquille a casa. Brett ha scritto She’s Not Dead pensando a sua zia, che si è suicidata insieme all’amante. Al contempo, Bernard si mette al piano e dedica la struggente The Next Life alla defunta madre del cantante. E’ un’ode triste, intrisa di quell’angoscia senza la quale non è possibile scrivere canzoni credibili. Lo sa bene Brett, che infila nel disco Pantomime Horse e Sleeping Pills, due pezzi scritti quando ha scoperto che Justine Frischman, sua ex e chitarrista della prima formazione dei Suede, ha iniziato a uscire con Damon Albarn dei Blur.  

Il tocco di magia, ciò che rende “Suede” così meravigliosamente perverso e attrattivo, è l’ambiguità sessuale. L’inizio è ovviamente l’artwork di copertina, ma in diversi punti Brett utilizza il pronome maschile per definire l’oggetto del suo desiderio, sentimentale e sessuale. Il suo non è necessariamente un modo per ostentare un orientamento che oggi definiremmo fluido, bensì un modo di esprimere la propria curiosità nei confronti della sessualità contorta: Morrissey, così come Bowie, non hanno mai dichiarato la propria sessualità, elemento che li rende ancor più interessanti agli occhi di Brett.

Oltre alle sonorità e ai registri vocali utilizzati, di “Suede” stupisce soprattutto il senso della rappresentazione. Per carità, giusto il paragone con “Never Mind The Bollocks” in termini di aspettative e vendite, ma per sostanza narrativa l’esordio di Anderson e soci andrebbe accostato a un altro debutto, sempre omonimo: quello dei Doors, che nel 1967 portarono in scena niente meno che il complesso di Edipo. Dal canto suo, Brett ha più volte dichiarato che i pezzi non sono autobiografici, ma storie elaborate intorno a reali stati d’animo, oppure fatti realmente accaduti tirati fino alle estreme conseguenze.

L’uscita di Suede, laddove non si fosse ancora capito, fece saltare il banco. Bastino questi tre dati: divenne disco d’oro già in fase di prevendita, superò il record di vendite stabilito dieci anni prima da “Welcome to the Pleasuredome” dei Frankie Goes to Hollywood e quadruplicò le vendite di “Songs of Faith and Devotion” dei Depeche Mode. La sua diffusione commerciale nel mondo è stata una deflagrazione, mentre in patria può essere definito senza tema di smentita una ridefinizione degli standard britannici. I Blur – dell’odiato Damon – usciranno un paio di mesi dopo con “Modern Life is Rubbish”, disco un po’ acerbo, un punto di passaggio da uno stanco madchester a qualcosa di nuovo ma non ancora ben chiaro. Quel qualcosa si manifesterà un anno dopo, quando uscirà “Parklife”, al quale si affiancherà “Definitely Maybe” degli Oasis, un altro first-instant-classic venuto fuori dalla mente (e dalla voce e dalle chitarre) dei fratelli Gallagher.

Alla fine di marzo del 1993, la meravigliosa storia della British Invasion si arricchisce di un nuovo capitolo, quello scritto dai Suede. Il suo titolo è britpop.

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