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Ristampe e Dintorni

Pink Floyd – The Dark Side Of The Moon (50th anniversary edition)

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Ricordo di aver desiderato una Bentley come un matto. L’unico modo per ottenere qualcosa del genere era attraverso il rock o il totocalcio. Volevo davvero tutta quella roba materiale.

Roger Waters

L’arrivo di una versione Dolby Atmos di “The Dark Side of the Moon” è sicuramente una notizia gradita per chi si diletta di queste cose. Anche perché è fatta bene. A differenza di tante versioni in audio spaziale di altre opere, dove hai tutti i suoni al centro e ogni tanto uno strumento che ti spunta alle spalle cercando di strapparti quel “wow” che alla seconda volta diventa noia. Immagino non potesse essere diversamente per un album che già 50 anni fa aveva fissato dei nuovi paletti di perfezione nel campo della stereofonia. Il lavoro fatto per “The Dark Side Of The Moon” non delude affatto ed è all’altezza della fama e del successo di lungo corso dell’album.

L’effetto è talmente coinvolgente da inquietare fin dalla prima traccia, Speak To Me, con il suo famoso heartbeat che, progressivamente, accompagnato da voci e effetti sfocia in Breathe (In the Air). Il mix è davvero avvolgente e immersivo. Ogni elemento risalta con estrema chiarezza e in luoghi diversi e inattesi della mia stanza. On The Run è favolosa in audio “spaziale”. Risplende come un esempio di musica elettronica avveniristica degno del miglior Jean Michel Jarre. I vari effetti sono resi al meglio: l’onda sonora si sposta continuamente da davanti a dietro l’ascoltatore e i passi finali di qualcuno “on the run” si allontanano gradualmente portando un senso di sollievo: la fuga è riuscita. Ma non fai in tempo a rilassarti che comincia la fighissima introduzione di Time. Le sveglie prima, che ti suonano da tutte le parti come un incubo mattutino e poi il basso e le percussioni. Una delle introduzioni più entusiasmanti e arrapanti della storia del rock, che qui risalta al meglio.

Ho sempre trovato che da qualche parte, nel bel mezzo di Time, la tensione che pervade “The Dark Side Of The Moon” scemi e l’esperienza musicale passi dallo straordinario al banale. L’ascolto in Dolby Atmos non fa che rafforzare la sensazione. Vengono a mancare i colpi di scena continui e inquietanti che caratterizzano i primi 10 minuti del disco e ci si inizia ad avviare verso un soft rock rassicurante. Certo, qualche pelle d’oca su The Great Gig in the Sky non manca, soprattutto grazie alla cantante Clare Torry.

Ma la doppietta Money/Us and Them l’ho sempre trovata deludente. Il Dolby Atmos conferisce una bella potenza ai registratori di cassa che lanciano lo stomp in 7/8 di Money, ma nemmeno quest’effetto può salvare la piattezza della traccia. Per non parlare dell’intervento del sax che si svolge in due assoli, sulle due tracce, che sono ormai diventati lo standard per quanto di più scontato, trito e ritrito, si possa ascoltare nel campo dell’esecuzione sassofonistica. Per fortuna, c’è la sequenza finale. Quei 9 minuti carichi di tensione che vanno da Any Colour You Like a Eclipse, passando per Brain Damage. Risplendono a nuova vita grazie all’audio spaziale con la risata psicotica nel mezzo di Brain Damage che speriamo non entri nei vostri incubi notturni, dopo avervi trapassato i padiglioni auricolari da un lato all’altro più volte.

Del disco di cinquant’anni fa e del suo straordinario successo commerciale che prosegue imperterrito, sapete già tutto. Fu il disco che permise finalmente di coronare gli smodati desideri materiali di Waters, per il resto della sua vita. Forse però non sapete che la critica musicale “seria” è divisa sul reale valore dell’opera. Per “critica seria” s’intende quei pochissimi rimasti che non scrivono unicamente per favorire il clickbait funzionale alla raccolta pubblicitaria, o per confermare il senso di appartenenza musicale e generazionale dei meno giovani e la loro critica e lamentela contro la contemporaneità. S’intende critici indipendenti che ne sanno qualcosa di quello che scrivono e sono capaci di originalità di vedute, senza secondi fini.

Del dibattito sul reale valore di “The Dark Side Of The Moon” si trova un bell’esempio nel numero di marzo di “Blow Up”, dove i redattori della rivista hanno espresso i loro giudizi sul disco culminandolo con voti che vanno dal 4 a 10. I più critici si sono soffermati sulle “tastiere divanose, le voci svenevoli, i cori evanescenti, le chitarre carezzevoli, i sax pecorecci e le canzoni pulite e senza sbavature”. “I suoni morbidi” e “la musica che puoi mettere in sottofondo mentre tutti chiacchierano e nessuno se ne lamenta perché li distrae”. Come avrete capito, se mi avete letto tutto fin qua, sono critiche che in parte comprendo, soprattutto se riferite alla parte centrale del disco. Tuttavia, il mio voto, se dovessi esprimerne uno, ricadrebbe intorno al 7, che sarebbe una media tra i momenti migliori (l’introduzione di Time, On The Run, Brain Damage) e quelli più deboli, nei quali ricomprendo l’irritante piattezza, lungo tutto il disco, della sezione ritmica composta da Waters e Mason. Da sempre trovo maggior pathos complessivo in “Wish You Were Here”, opera altrettanto paracula ma più centrata e coerente, mi pare. O in “Animals”, album musicalmente poco “morbido” e poco “pulito”. E non voglio nemmeno ricordare il valore di ciò che è venuto prima ancora, con e senza Syd Barrett; prima che le Bentley cominciassero a fioccare a casa Waters.

La versione in Dolby Atmos tuttavia, come ogni buon audio “immersivo”, rende impossibile mettere questa musica in sottofondo. Si passa  dall’esaltazione dei sensi, alla noia, al fastidio per tornare all’esaltazione alla fine dei 42 minuti. Mi rendo conto di aver parlato a lungo della versione in Dolby Atmos, mentre questo boxone presenta anche altro. Cominciando da una versione rimasterizzata dell’opera. Tecnicamente, il remaster mi sembra avere pompato parecchio, al limite del possibile e quasi troppo, le frequenze basse. Il che rende forse più attuale e corposo e anche meno “evanescente” e “svenevole” il suono, ma può introdurre una leggera fatica nell’ascolto, che ho provato soprattutto in cuffia. Di remix invece, dopo cinquant’anni non se ne vede l’ombra, né la necessità, tanto era stato fatto bene il lavoro all’origine.

Per il resto si segnala un “Live at Wembley Empire Pool” del 1974 che non è un inedito ma solo un remaster. A ciò si aggiunge il solito librone e memorabilia varie. Insomma, per un disco da 7 non è abbastanza per farmi spendere 300 euro, soprattutto finché la versione Atmos sarà disponibile in streaming. Quel che peraltro, mi consentirà di limitare il mio contributo alla prossima Bentley di Roger Waters. Il quale, se continua con le sue senili e sguaiate dichiarazioni, terminerà per dannare sui libri di storia il nome di una band che tanto aveva contribuito a fare grande la musica rock. Ma questa è un’altra storia. Per quanto mi concerne, penso proprio di avere in questi giorni ascoltato “The Dark Side of the Moon” più volte di quante lo avessi ascoltato negli ultimi 30 anni. Va anche bene così per questo cinquantenario: ho dato abbastanza.

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