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Interviste

La (anti)bellezza dei detriti: intervista a Bad Pritt

Shooting Bad Pritt 2022

Uscito a inizio marzo su Shyrec, “Debris” è il nuovo album di Bad Pritt (qui la nostra recensione), moniker tramite il quale opera Luca Marchetto, musicista padovano già attivo nei The White Mega Giant. Il disco affronta il tema del lutto e tutto ciò che una mancanza porta con sé: smarrimento, oblio, impotenza. In “Debris” si fanno i conti con le rovine, con gli spazi enormemente dilatati e silenziosi che la perdita genera. Le coordinate sonore sono quelle dell’elettronica e della neoclassica, fuse insieme in un’entità dalla forte personalità. Ne abbiamo parlato direttamente con il compositore veneto.

Ciao Luca e benvenuto ad ImpattoSonoro. Mi piacerebbe iniziare parlando del tuo moniker, che tanto mi ha fatto dannare inizialmente (io, i nomi e le corrette pronunce abbiamo svariati problemi di tipo logopedico). Ammetto che l’accostamento fonetico con Brad Pitt mi è venuto in mente solo dopo, in quanto la prima cosa a cui ho pensato è stato associare il tuo nome ad una “cattiva colla”, qualcosa che in qualche modo non riesce ad aderire ad altro. Vorrei che però tu ci raccontassi di questo nome in maniera più approfondita.

Ciao Arianna, grazie per questo spazio. A dire il vero è tutto meno poetico, anche se la tua visione è interessante. Il nome all’epoca mi girava in testa da un po’ e trovavo che alleggerisse il lato iperpeso che invece ha la musica. Prendere un prototipo di bellezza e distruggerlo storpiandone oltre che il nome anche il significato. Un lato ironico che comunque fa parte di me e che cerco di far emergere nei social. Nulla di cattivo quindi  ma soprattutto nessun messaggio in particolare, solo il cercar di strappare un sorriso.

Ho notato che non ci sono praticamente foto di te, se non qualcuna dai contorni incerti e sfumati che non lasciano intravedere il volto distintamente. Per te un moniker e, soprattutto Bad Pritt, cos’è? Da dove è nata la tua esigenza di creare un’identità alternativa?

Credo che in quest’epoca, cercar di mantenere un minimo di anonimato di immagine e al contempo far conoscere il progetto, sia romanticissimo. All’inizio ce l’avevo con le maschere. Le prime due uscite, il disco omonimo ed “EP1” sono state accompagnate da immagini legate alla maschera. Mi ha sempre affascinato questo strumento paradossale; che svela coprendo. Rivelare sfruttando un altro strumento è un po’ l’essenza di un’identità artistica. Per questa uscita invece non ho trovato maschere che mi interessassero, ed ho optato per delle immagini furbe, su un’idea di Antonio Rasi Caldogno, l’autore delle foto. Riguardo al moniker, siamo così pieni di sfaccettature che credo sia molto complicato realizzarle tutte in un unico progetto, quindi non sarei mai riuscito a chiamare questa orchestrina con il mio nome e cognome perché non avrebbe potuto rappresentare tutto. Credo invece nello scegliere qualcosa di chiaro e percorrerlo, pur evolvendolo, ma mai trattandolo in chiave assolutistica. Quindi questo mio lato ha il nome di Bad Pritt e tratta solamente di morte in senso lato e del percorso che si fa cercando di venirne a capo. Poi nella vita faccio anche altro e mi diverto.

“EP 1” e “Debris” sembrano essere un diario unico, suddiviso in più uscite discografiche. Secondo quali principi sono state organizzate le date/titoli nei due album? Seguono un ordine cronologico oppure sono state suddivise in base a criteri diversi?

Lo sono. Seguono un ordine di distacco. In “EP1” tutto era sospeso. Giorni anonimi fermi nel tempo mentre la vita fuori scorre, ma tu no. In “Debris” invece c’è un contemplare il percorso, e man mano che lo si osserva, passare dall’essere in una tempesta, alla quiete che esplode in fiducia liberante. Non sembra ma “Debris” è un disco liberante.

“The Beauty Of Destroying The Beautiful” è la frase che accompagna l’uscita di “Debris”. È una frase poetica, che racchiude in sé delicatezza e violenza. Ci parleresti di quest’idea?

È il coraggio di abbandonare le credenze precedenti. Ciò che per convenienza o timore accetti e credi possa essere il meglio per te, invece un po’ alla volta ti uccide. Cose del genere è meglio distruggerle. È un po’ quello che fa la morte, ti porta via l’illusione.

Se è vero che, a seguito di un lutto di qualsiasi natura, gli spazi interiori vengono in qualche modo ridefiniti e rimodulati secondo nuove necessità, è anche vero che lo spazio vuoto occupato principalmente dai detriti è il solo in cui ci riconosciamo, seppure desolato. Le rovine, quindi, diventano protagoniste attive del processo percettivo. Ho letto nel comunicato stampa che diventiamo meri osservatori delle rovine che ci circondano, come se la distruzione non agisse attivamente sull’elaborazione e sulle percezione delle cose. Mi piacerebbe che tu ci raccontassi di più di più dell’idea di detrito, che poi è anche il concept dell’album.

È una sorta di memento mori applicato a qualsiasi attaccamento, che ne ridimensiona il peso. Tutto diventa detrito e ne emerge la condizione momentanea. Da qui il lato liberante di prima. Nel film “Dio Esiste e Vive a Bruxelles”, Ea la figlia di dio, ruba di nascosto il computer del padre per mandare un SMS a tutta l’umanità con scritto data e ora della loro morte. Così facendo ricorda a tutti la condizione momentanea di cui sopra e ne scaturiscono reazioni che vanno a distruggere la visione precedente di loro stessi e a trovare nuovi spazi. “Debris” è una sorta di resoconto a capitoli (date) di quel processo che ti porta all’ineluttabile mutamento.

Se dovessi dare un “volto” a “Debris” lo immaginerei essenzialmente come una sonorizzazione di qualche film, senza possibilità di replica, dato che alcuni processi nella crescita umana sono unici, lontani da qualsiasi riproducibilità seriale. Tu come lo hai immaginato il volto di “Debris”? E che peso ha la componente visuale nella realizzazione dei tuoi live?

Mi piace l’immagine che gli hai dato, un film senza possibilità di replica. Te la posso prendere in prestito e usarla come risposta alla tua domanda? Nei live vengo accompagnato da immagini che sono volutamente poco definite proprio per dare solo un suggerimento e una suggestione di luce al suono del momento e accendere nell’immaginario del pubblico il proprio film (che non verrà replicato).

Ho letto che Bad Pritt è un progetto “100% hardware 100% computer free”. Quali sono gli strumenti che tu utilizzi? E come mai la scelta di non impiegare i computer? Pensi che in qualche modo tolgano un certo “calore” alle tue composizioni?

Live utilizzo molta strumentazione ed è sostanzialmente suddivisa in due clan:
-vari synth, loopstation, drummachine per il lato droide radioattivo spaccatutto
-suoni acustici di piano e archi per il lato caldo e romanticone.
Insieme formano questa ricetta di melodia e distruzione che aiuta a disintegrare il bello. Riguardo la mancanza di laptop nei live, se potessi, suonerei con un vero batterista piuttosto che con una drum machine, con degli archi veri invece che con delle tastiere (ma sono cazzone, e non ci riesco). Quindi più mi allontano dal lato automatizzato avvicinandomi a quello reale, meglio sto. Va da sé che un computer difficilmente finirà in un mio live. È un territorio che per me va preservato e mantenuto puro il più possibile. Passiamo tutto il giorno davanti a dei monitor, vanno trovati spazi e tempi in cui ritrovare una dimensione diversa, una sorta di rito. Come fanno alcune religioni che nei luoghi sacri si tolgono le scarpe, io tolgo il computer.

Della tua precedente esperienza nei White Mega Giant cosa ti porti dietro e cosa invece lasci dietro?

Detriti!  scherzo. Provo un senso di profondo affetto per tutto ciò che è stato quel progetto e le persone che ne hanno fatto parte. Credo che Bad Pritt si porti con sé una bella fetta di eredità di quegli anni. Sono cambiati gli strumenti, sono da solo e non siamo in tre, ma a livello compositivo riconosco moltissimo di quella creatura. Inoltre sono rimasto con la stessa etichetta, Shyrec, che più che un’etichetta è uno stile di vita, un modo di fare le cose in cui mi riconosco, oltre che una cerchia di amici, che rende tutto un bellissimo percorso in divenire.

Grazie, aver parlato con te è stato un piacere!

Anche per me. Spaccate!

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