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“Pure” e l’autenticità del suono industrial nei Godflesh

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Per scrivere di un gruppo che ha fatto storia bisogna essere parecchio preparati e io non lo sono affatto, ma i Godflesh rappresentano uno dei motivi per cui ho iniziato a prendere la musica seriamente, ascoltandola con la giusta attenzione e concentrandomi su ciò che comunica. Sono stati anche il motivo (insieme ai Melvins), per il quale io mi sia tanto invaghita del suono del quattro corde, che nei loro lavori è un timbro di riconoscimento da cui non ci si può sottrarre.

Pure viene pubblicato il 13 aprile 1992 ed è il secondo album in studio del duo di Birmingham, che con il debutto “Streetcleaner” (1989) aveva prepotentemente piantato le proprie radici in un genere, quello dell’industrial metal, spingendosi dove nessuno aveva mai osato fino ad allora. Siamo tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi dei Novanta, epoca in cui la scena musicale è divisa tra grunge, death metal, grindcore, robe forti per stomaci altrettanto forti ma sappiamo benissimo che quegli anni sono stati tra i più proficui nell’ambito più estremo della musica: una decade che ha influenzato quello che ascoltiamo ancora oggi. E così Justin K. Broadrick (ex-Napalm Death) e G.C. Green danno vita prima ai Fall Of Because e poi ai Godflesh. Due soli membri, quattro strumenti che dominano allo stesso modo: una voce, una chitarra, un basso, una drum machine. Da questi quattro elementi emergono note autentiche, crude, infernali. Una sinfonia martellante di suoni industrial, chitarre distorte, giri di basso che penetrano in testa e un pulsante utilizzo della drum machine in modo assolutamente unico e geniale, come solo Broadrick e Green sanno fare.

Pure” contiene alcune delle tracce più pesantemente asettiche e noise dell’intera carriera del duo e inizia a tracciare il lavoro di sperimentazione che caratterizzerà nei 30 anni successivi la fama dei Godflesh, che da quest’album in poi riusciranno a mescolare sapientemente esperimenti vocali e di generi. La prima parte del disco risulta forse meno ostica ad un nuovo ascoltatore non abituato al genere e contiene brani come quello d’apertura Spite (letteralmente dispetto, ripicca, cattiveria) che ci preannuncia i ritmi ossessivi e ripetitivi dei 79 minuti che compongono il quadro massacrante di una società nauseante, sia a livello sonoro che di testi. La tensione cresce nota dopo nota, così come, per l’appunto, la cattiveria (richiamata dal titolo) di Broadrick verso qualcuno o qualcosa e che sembra un gesto provocatorio non del tutto identificato. Si prosegue con Mothra, anch’essa impossessata dall’ossessione e dalla ripetitività, che però stavolta sin da subito ci fa immergere nel microcosmo godfleshiano paranoico e delirante in cui la sofferenza di ognuno non ha così tanto valore e anzi, bisogna servire tale sofferenza per poterla conquistare.

 Wasn’t Born To Follow è forse una delle tracce che più delineano i lavori successivi della band. In pieno stile Godflesh, dalle dimensioni oniriche e sinistre allo stesso tempo, questo brano non ha alcuna pietà verso chi lo ascolta, con i suoi 7 minuti di rabbia, nevrosi e perdizione, in cui la voce di Broadrick ha un suono più pulito, compensata dai riff di chitarra e dai durissimi colpi di basso e batteria. Seguono le energetiche e ritmate Predominance e Pure, a tinte quasi sludge la prima e più rumoreggianti e caotiche la seconda. Si arriva a metà disco e ci si deve prendere un momento di sosta. ”Pure” è qualcosa che va preso in piccole dosi, un po’ per volta, o si rischia di entrare in un tunnel di dipendenza emotiva non indifferente. E allora togliamo le cuffie, alziamoci, facciamo due passi, metabolizziamo. Lasciamo fluire le energie e, quando ci sentiamo nuovamente pronti, entriamo nella seconda parte del disco che in realtà è la più dura, la più faticosa. Io vi ho avvertiti. Pronti? 

Monotremata e Baby Blue Eyes ci fanno riprendere questo insidioso viaggio nel mondo industrial e ci preparano a quella che sarà poi la vetta finale da scalare. Due pezzi incredibilmente caotici e meccanici che ci fanno perdere lucidità e razionalità. Don’t Bring Me Flowers, dall’andamento più cauto e calmo, ma con i soliti pulsanti ritmi, sembra volerci dare un campanello d’allarme su quello che ci attende nel finale. Una luce in fondo al tunnel, forse? Love, Hate (Slugbaiting) per ben 10 minuti ci avvolge in un’atmosfera psichedelica e psicotica, rarefatta e distante, ossessiva e asfissiante, sia nelle parole ripetute nel tempo che negli incisivi riff che vagabondano su e giù per l’intero brano confondendosi con tutto quello che ruota attorno. L’ultima traccia Pure II corrisponde agli ultimi 20 minuti di album e si affaccia al mondo del dark ambient e del drone, quello stesso mondo a cui Broadrick nella sua carriera solista farà spesso riferimento, anche per merito di azzeccatissime collaborazioni. Sembra di essere all’interno di un videogioco a tinte horror, nell’esatto momento in cui sei alla ricerca di quella minacciosa presenza colpevole di tutti i tuoi tormenti più grandi.

E alla fine, la luce in fondo al tunnel non riesci a trovarla. Il videogioco s’interrompe dissolvendosi in un buco spazio-temporale e lasciandoci completamente a disagio, perplessi, sfiniti, disorientati. Questo non è sicuramente il loro miglior album ma è imprescindibile per conoscere realmente chi erano i Godflesh dei primi anni e per rendersi conto di quanto avessero urgente bisogno di infrangere del tutto gli schemi del metal e del rock. Tra rotture, carriere soliste e ricongiungimenti, arriviamo ai giorni nostri e ritroviamo il duo in piena attività, con uno stile che è lo stile Godflesh, un marchio indelebile.

Pure ha aperto strade fino ad allora semi inesplorate, influenzando interi generi musicali come industrial e post-metal e band come Converge, Isis, Faith No More, Neurosis. Risulta come un disco potente, lacerante, agonizzante, meccanico, sinistro, ed effettivamente lo è. E proprio per questo lascia un segno indelebile in chiunque ne riesca a catturare la straordinaria essenza.

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