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Emidio Clementi / Corrado Nuccini – Motel Chronicles

2023 - 42 Records
spoken word

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Tracklist

1. A Rapid City

2. Ricordo di aver cercato di imitare il sorriso di Burt Lancaster

3. Sistemava la gabbia dei canarini

4. Si era perso col camion in un posto chiamato Plains

5. Mexico City Organ

6. Ho trovato un uccello morto in mezzo a un parcheggio

7. Portavo il ghiaccio a Nina Simone

8. È una notte di delitti efferati

9. Uomini che si pettinano in macchina

10. Se ne sta immobile accanto alla valigia sfasciata

11. Petaluma, CA

12. Ero sprofondato in mezzo a cento ettari di pascolo


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Nel cuore di ogni uomo c’è un motel

Don Delillo, “Americana”

Lo scorso anno mi trovavo a casa, di sera, a riposo dalla routine lavorativa. Non avevo nulla da fare e ho pensato che l’idea migliore per stemperare l’asfissiante caldo estivo fosse quella di inserire la musicassetta di “Notturno Americano” nel walkman nero e compatto e lasciarmi portare via. La canicola non si affievoliva, la forbice della solitudine però si allargava, come ali nere dei primi del ‘900 di un mondo che non mi appartiene e mai mi apparterrà. Eppure qualcosa finiva per sovrapporsi a me, appiccicandosi addosso che in confronto il sudore pareva il minore dei mali.

Di norma è questo l’effetto che la voce di Emidio Clementi, anche quando non parla e la immagini leggendo uno dei suoi libri. Si aggiungeva allora, otto anni fa, e ancora è qui la chitarra e le architetture disegnate da Corrado Nuccini. Il duo completa un cerchio sulla cui linea poggia anche “Quattro Quartetti”, lo fa prendendo le parole di Sam Shepard e lo chiama come il libro da cui provengono, “Motel Chronicles”, un altro lavoro di immaginazione che si richiede a chi ascolta (e legge) per finire in una realtà altra, lontana nel tempo e nello spazio a confondersi, o meglio, fondersi e basta, appiccicandosi addosso anche quando il sudore non c’è e fuori tira un vento freddo da far paura.

I suoni sono quelli della vita, appunto, la voce flemmatica di Mimì va a riempire quei vuoti he sono propri dell’esistenza. Assieme alla sua, Francesca Bono reincarna ora un altro lato dello sceneggiatore di “Paris , Texas”, ora Nina Simone, anche lei sudata ma pur sempre divina, scivolando accanto e attorno quella principale, bucandola e affrontando un proscenio immaginifico davanti a un’audience più che reale, quella di chi ci circonda. Suoni della città che si interpolano alle rarefazioni a sei corde di Nuccini e Stefano Pilia, bordoni, tessiture luminescenti quando non vanno in percussione stroncando i silenzi, pulsando assieme a baluginanti digressioni sintetiche, carnali e reali. Ci sono chilometri di pellicola di jazz perduto, di simulacri che qualcuno potrebbe scambiare per post-rock, visibili solo controluce, senza ripetizioni eppure ripetendosi, cambiando un microgrammo alla volta, uno strato di suono e melodia al secondo, srotolandosi a seconda di come la narrazione richiede, descrivendola, opponendovisi, realizzandola.

Se la violenza domestica sale in superficie, un fucile viene caricato, Laura Agnusdei spinge il sassofono oltre il muro dell’efferatezza, lo strazia, e quando può, quando deve, lo fa danzare su ritmi spediti (Fabio Rondanini sa bene come farlo, ma anche trascinarsi, colpendo il meno possibile), e allora la sacralità si spegne come una sigaretta rovente su un posacenere ghiacciato, il funk del velluto rosso di un racconto si fa viva e intensa, pompando sangue in mezzo agli occhi, e giù nelle gambe rendendole mobili, non più immote. Il sacro rientra nella preponderanza degli archi (Concordanze), sono materia espansa e in espansione continua, fanno scattare qualcosa che stava affondato nel cuore, come una lunga coda di luci della ribalta che vanno spegnendosi, alla periferia della Hollywood d’oro, vista a posteriori, quando tutto è già guasto.

Mentre scrivo manca un mese esatto all’uscita dell’album e mi sento ancora una volta fortunato a fare questo lavoro (“lavoro”), potendo permettermi di viaggiare in anticipo, con la curiosità che divora che avevo da ragazzino, quando spingevo il naso contro la vetrina del negozio di dischi in attesa che il commesso esponesse l’oggetto (gli oggetti) del mio desiderio, invitandomi ad entrare e farli miei. Il mondo è cambiato giusto quel po’, si è spostato di lato e, come per effetto sismico, tutto è caduto dal tavolo, eppure quella curiosità ancora mi divora. Un mese prima.

Pare un sogno. Come i sogni lucidi e madidi di realtà di Shepard/Clementi e, tutto attorno va costruendosi un ambiente fatto di asfalto e vite che si sfilacciano o ricompongono oppure, ancora, restano lì dove sono, perché “Motel Chronicles” è un film guasto che profuma di pioggia e polvere, di calore e cose rafferme che attendono per sempre. Sa di fine imminente, una grandeur minimalista a tinte fosche.

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