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Spotlights – Alchemy For The Dead

2023 - Ipecac Recordings
post metal / trip hop / alternative rock / post punk

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Tracklist

1. Beyond The Broken Sky
2. The Alchemist
3. Sunset Burial
4. Algorithmic
5. False Gods
6. Repeat The Silence
7. Ballad In The Mirror
8. Crawling Toward The Light
9. Alchemy For The Dead


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Quante volte mi sarebbe piaciuto svegliarmi con la consapevolezza di guardare dalla finestra e vedere lo skyline di qualche grande città statunitense lo sa solo dio (o chi per esso). Solo, però, in concomitanza di specifici tour di altrettanto specifiche band, sia chiaro, che certe pratiche a stelle e strisce (invasione di Paesi alla cazzo di cane e sanità pubblica preclusa ad una larghissima fetta di popolazione, solo per citarne un paio) le baratto volentierissimo col panorama deprimente della mia triste e fetida cittadina del Nord-ovest Italia. Insomma, dicevamo, i tour. Ne prendo uno come esempio principe: Tool + Meshuggah + Fantomas. È roba che noi poveretti ci siamo sognati, forse pure letteralmente, la notte. Sì, va bene Tool + Mastodon a Torino e NIN + Tool a Bologna, non ci sarebbe da lamentarsi, però quel trittico mi è rimasto qui sul groppone. Mi accade ancora oggi vedendo che i Mr. Bungle (Patton sempre presente negli sparuti momenti onirici in cui non vengo rincorso da mostri o fatto a pezzi dai miei vicini stufi di sentire urla demoniache provenire dal mio appartamento) in tour si stanno portando Melvins e Spotlights. Il gran ducato Ipecac in pompa magna. Solo USA. Seguono imprecazioni di varia entità.

Nelle puntate precedenti: gli Spotlights hanno all’attivo tre album di cui uno prodotto da Aaron Harris degli Isis (the band, lo dico, casomai all’etere venisse in mente che io stia parlando d’altro) e due su tre usciti, per l’appunto, su Ipecac Recordings, casa base di Micheluccio nostro bello, e tre su tre dischi della madonna. Fine del riassunto, punto all’essenziale. Il trio composto dai coniugi Mario e Sarah Quintero (nucleo centrale della band) e dal batterista Chris Enriquez si è preso il suo bel tempo per ragionare bene sul concetto di “La maggior parte delle nostre vite gira attorno ad un’unica cosa, ossia che tutti alla fine moriremo.” (cit. Mario Q.) e di come per ognuno di noi il tristo mietitore e le conseguenze della sua venuta assumano un significato diverso. Sottolineano anche come in certe culture la morte sia vista in tutt’altro modo e che, perciò, “Alchemy For The Dead” sia tutto incentrato sulla dipartita, non un vero e proprio concept ma poco ci manca, considerato che ogni brano ruota attorno a quel tema e quello soltanto. 

Racchiuso in una copertina degna delle peggiori band goth/dark/doom metal, “Alchemy” è però ben altra cosa rispetto a quanto trovereste all’indentro di tutti quei gruppi che stanno sotto il cappello di cui sopra. Sull’oscurità, però, non ci piove. È proprio la pioggia ad aprire l’album in Beyond The Broken Sky, Mario, voce filtrata memore di Planet Caravan dei Sabbath, intona “The walls of rain keep coming” sorretta da questo vibrante feedback che ben presto si fa colonna vertebrale dei tuoni esplosi dal resto della strumentazione, come una tempesta cosmica accordata parecchi toni più in basso la luce del sole. Se di alchimia vogliamo parlare, alchimia sia, The Alchemist è, infatti, materia in mutazione, trip hop da obitorio (letterale sul finale “I’ll make you a part of me/When I cut you open”) che travalica il confine per scoppiare maligno e farsi carezzevole empatia acustica sulla coda. La pietra filosofale di Sunset Burial sono il basso e il cantato di Sarah, trasformano la pesantezza post in alternative rock da camposanto, rintocchi funebri elettrificati spinti all’eccesso, dannati per sempre, imbastardiscono e picchiano sulla nuca senza straboccare mai, se non all’interno di un cuore spezzato. I synth di Crawling Toward The Light richiamano a sé la new wave ’80 più lapidaria (nel senso di pietra tombale) che ti voglio vedere i Cure, che comunque il suono lo hanno portato alla luce (pardon, al buio), far meglio in questo benedetto nuovo album che chissà mai se uscirà. Forse esagero? Può darsi, tanto più che Smith non mi sta particolarmente a cuore, ma ci tengo a farvi capire per bene cosa avete tra le mani.

Ancora quattro corde dirompenti sul ritmo martellante di False Gods, rilasciato nel ritornello e annientato definitivamente dal folle sax di Ben Opie che, come una lama nel buio, fa brandelli dello scorno elettrofago, quasi a volare via mentre tutto crolla inesorabilmente al suo, ed eccole le urla finora assenti che schiantano gola e cassa toracica. Che poi, in fin dei conti, a fare la differenza tra un buon disco e uno qualunque (ben peggio di uno di merda) non è tanto il wall of sound, qui assente, bensì l’uso che fa il gruppo delle dinamiche e dell’uso che ne fanno i gruppi. Gli Spotlights sanno come si fa e lo dimostrano: Ballad In The Mirror e Repeat The Silence oscillano tra gretta sludgeria del corso e ondivaghe sensazioni post-metal memori degli ultimi Isis, fin troppo bistrattati ma che erano invece trampolino per tuffatori eccellenti come questi tre signori qui.

Chiudo citandoli: “Will the music go on? For another million days”. Lo spero bene, ché c’è bisogno di nomi nuovi che non facciano rimpiangere la vecchia guardia, togliendoci d’impaccio e sollevandoci dal dover pubblicare solo una marea di “Back In Time” rimpiangendo tempi che la maggior parte delle volte non abbiamo nemmeno vissuto.

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