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The Thugs – Holy Cobra Dub

2023 - Love Boat
reggae / dub

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Tracklist

1. Underground Rituals

2. Down To The Dark Side

3. We Are Thugs

4. White Demons

5. Cosmic Order

6. Gold And Shine

7. Echoes

8. Dark Waters

9. Kali Is Our God

10. Rumal At Work

11. Holy Cobra Dub

12. But I'm Still Mist


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Mi chiedo “perché dovrei recensire un album reggae”? A me il reggae non piace ora né mi è mai interessato approfondirlo. Non so per quale ipocrita forma di discrasia musicale in realtà l’universo dub invece mi affascina, mi è sempre piaciuto, ho sempre adorato come in gruppi post-punk della prima ora (dai PIL ai The Pop Group e via citando) ne fossero tremendamente influenzati e di come si sentisse e pure bene che i membri vagabondavano da un sound system all’altro più che ai concerti punk e, non ultimo, sono un servo dei suoni di Bill Laswell e Jah Wobble. Quei bassi, quei suoni, quello spazio ampio in cui annegare. Eppure il reggae no. Eppure Don’t Play No Game That I Can’t Win dei Beastie Boys…Eppure le influenze della natia Giamaica dei Bad Brains (i solisti di H.R., anche sì)…Eppure The Thugs.

The Thugs: da una parte Nicola Giunta, mente qui, mente dei Lay Lamas (Nuova Psichedelia Occulta Italiana, cazzo, tutti a lamentarsi di certe etichette ed epiteti, ma io li adoro), dall’altra Edoardo Guariento, batterista metalcore (ecco un altro genere che non vorrei mai più sentire, e l’ho anche suonato mio malgrado) in forze nei 3ND7R. Prendono strumenti provenienti dal decennio di riferimento (1070s) e sono pronti a partire per lidi salgariani, perché i thugs sono gli avversari di Sandokan. Antagonismo naturale, perché non c’è una nota ascrivibile a nulla di ciò che “va per la maggiore”, qui, nemmeno in campo alternativo, sempre ammesso esista ancora. Il suono che producono arriva proprio dai sound system, da casse gigantesche coi coni incollati che danno su spiazzi ora annientati dal sole, ora dal cemento e da vestigia Vittoriane.

Ecco come prende forma “Holy Cobra Dub” (titolo dell’anno, prego segnare): ci sono queste eco madide di sudore, gargantuesche, statuarie, dilatano tutto e si mangiano le chitarre asciutte, anzi no, le fanno impennare. Dry e wet che si spingono da dietro. Si intrufola una vena psichedelica che corre lungo tutto il corpo, But I’m Still Mist ti sbrindella l’ippotalamo non meno della tracotanza di Echoes e dell’attacco ultrasolare messo in atto su Cosmic Order. Giunta e Guariento fanno il viaggio inverso, dalle roots alle piaghe post-punk, infettano le radici ma c’è dell’altro. Nicola dice che nelle batterie ci sente i Suicide ed è tutto vero: Dark Waters e We Are Thugs non hanno solo quello di Vega e Rev, ma anche il modo in cui i synth vanno a sbattere sulle pareti, la voce filtratissima (qui e ovunque), quella sensazione di pericolo imminente e appostato dietro l’angolo. Poi ci sono bombasticismi sornioni come Rumal At Work, dub all’ennesima potenza più diecimila, molle al posto dei piedi e occhi a spirale, White Demons, col basso che pompa durissimo, Kali Is Our God, dalle acide tinture elettroniche che massacrano il cervello rigirandolo in un nido di incubi, ancora e ancora, in una spirale infinita.

Alla fine ho capito perché sto qui a recensire un disco reggae: il dub del cobra sacro si muove sinuoso nelle intercapedini dell’anima. Lasciatelo fare.

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