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SQÜRL – Silver Haze

2023 - Sacred Bones Records
post drone rock

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Tracklist

1. Berlin ’87
2. The End Of The World
3. Garden Of Glass Flowers (feat. Marc Ribot)
4. She Don’t Wanna Talk About It (feat. Anika)
5. Il deserto rosso (feat. Marc Ribot)
6. John Ashbery Takes A Walk (feat. Charlotte Gainsbourg)
7. Queen Elizabeth
8. Silver Haze


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Gli SQÜRL amano dipingere tramite chitarre lente e rumorose e la batteria. Gli SQÜRL amano lo shoegaze, l’haze-rock, il drone metal e il trip hop. Gli SQÜRL odiano l’auto-tune.

Dal comunicato stampa del disco

Jim Jarmusch oggi ha settant’anni, non gliene fregava un cazzo delle mode trent’anni fa, figurarsi ora. Anzi, semmai è diventato ancor più obliquo a tutto ciò che lo circonda. Con l’avvento degli anni Dieci del nuovo Millennio chi stava nello stesso spazio occupato dal regista dell’Ohio è stato santificato quando, fino a poco prima, veniva ignorato dai più e venerato solo da alcuni poveri stronzi fissati. Certuni ne hanno approfittato, cavalcando l’onda, divenendo simili a sé stessi come mai prima, ripetendosi. Jarmusch se ne è sbattuto altamente. Lo dimostrano ampiamente i suoi film, dal primo al più recente (tengo a precisare che a me gli ultimi non piacciono nemmeno, anzi, mi pento finanche d’averli visti al cinema) e ancor di più il suo approccio alla musica.

Gli SQÜRL non sono altro che la personificazione sul piano sonoro del pensiero jarmuschiano, scevro da mode e modi che oggi mandano in visibilio anche il più hipster dei post-hipster, dei curatori di mostre pettinate che sembrano alt, non si sa nemmeno dove e come classificarli. Assieme a lui il batterista Carter Logan, altra generazione, altra impostazione. Suonava nelle band jazz della scuola, ora distrugge interi orizzonti sonori. “Silver Haze” è il loro album di debutto (se non si contano le colonne sonore, ovviamente) e arriva in un momento storico in cui emergere non è davvero più possibile, a meno che non diventi il cosplay di qualcosa avvenuto svariate decadi or sono, facendo bagnare i pantaloni alla rete e, in ultima battuta, alla stampa specializzata.

Che a Jim piacesse il drone metal era già chiaro dalla colonna sonora di “The Limits Of Control” che segnava la presenza di Boris, Sunn O))) ed Earth. Queste band sono le coordinate su cui si potrebbe muovere “Silver Haze”, ma da qui ad accostarle ce ne passa. L’album è cosa a parte, è personale senza inventare nulla. Perché dovrebbe? In un’intervista al Guardian il chitarrista si è detto stufo del rock di derivazione blues e di “tutti quei fottuti assoli”, una dichiarazione di intenti che si traduce in quel che si incontra lungo il percorso. L’album è immerso in una coltre di nebbia e a farla alzare dal terreno sono proprio le chitarre, una poltiglia lenta che si adagia sulle ritmiche unidirezionali, prive di riferimenti e groove, come stanche del mondo che circonda chi le suona.

Ancora chitarre e uno dei loro signori e padroni, Marc Ribot, che fa capolino in ben due brani. Garden Of Glass è un incontro cosmico tra nativi americani e le loro danze rituali e futuribili intelaiature sintetiche, accompagnate dallo strumento tanto caro al chitarrista feticcio di Tom Waits mentre Il deserto rosso è nomen omen con la capacità di teletrasportare l’ascoltatore in zone brulle e abbandonate, Jim e Marc a rincorrersi di duna in duna, lenti come l’incedere della morte, bradipi alieni ed elettrici che arrancano sulla batteria secca e chirurgica di Logan. Il duetto vocale Jarmusch/Anika che si srotola in She Don’t Wanna Talk About It è morbido gelo dronico, scintillio femmineo nicoiano e stentorea ugola stonata che ballano sospesi nel vuoto di una ballad scritta sul vetro lurido di una casa diroccata. Charlotte Gainsbourg, invece, si prende da sola la scena e parla dritta in camera fino a trasfigurare deumanizzandosi e facendo di John Ashbery Takes A Walk un momento di intimità febbricitante, soliloquio in sospensione.

La title track e Berlin ’87 fanno storia a sé. Piazzate specularmente in chiusura e in apertura sono i due volti dell’apocalisse, una terrestre, calda, allacciata a radici sanguinose (non stonerebbe come coda di “Dead Man”, per restare in tema), l’altra fredda come una lastra di metallo esposta alle intemperie post-punk più algide possibili. Sono la struttura e il cardine attorno cui gira “Silver Haze” che, ben lungi dall’essere un capolavoro, è un dipinto a tinte fosche di un mondo ormai allo stremo, tremendo da vivere, affascinante da osservare fino in fondo.

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