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“Hot Rail” dei Calexico, cronache da una terra di confine

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Se si dovesse contestualizzare la musica dei Calexico, è facile immaginarla come la colonna sonora di un ipotetico viaggio on the road lungo quella linea di frontiera tra il deserto e la polvere dell’Arizona ed il Messico con tutto il suo folclore ed i suoi colori. Nessuno come la band di Tucson ha saputo rendere meglio le tipiche sonorità di quelle terre di confine molto differenti tra loro, seppur contigue.

Nella loro musica multiculturale si incontrano roots rock, tradizione country e folk nord americana (Eagles e Neil Young su tutti), con suggestioni mariachi, tex-mex e musica popolare messicana, influenze latino americane e perfino gipsy. Ma non solo, in un disco dei Calexico si possono trovare anche rimandi a musica da camera, improvvisazioni jazz, atmosfere epiche debitrici del grande Maestro Ennio Morricone e quindi scenari musicali che portano alla mente anche il cinema di Sergio Leone ed al vecchio West, oppure ancora richiami ai paesaggi evocati nei romanzi di Cormac McCarthy. Tutto questo rappresenta il caleidoscopico e caldo universo sonoro della band capitanata dalla coppia Burns/Convertino.

In “Hot Rail“, disco pubblicato nel 2000 e terzo loro lavoro in studio della band, si trovano quindi tutti gli ingredienti sopracitati con l’aggiunta, come mai in passato né in futuro, di influenze post-rock che attingono in particolare dal suono di Chicago di quegli anni, come per altro affermò all’epoca lo stesso Joey Burns. Grande rilevanza in questo lavoro è data poi alle dinamiche: silenzio, rumore, rimbombo, sussurro, e la base strumentale si amplia con l’aggiunta di marimba, steel guitar e clavicembali.

Il disco si apre con la strumentale, spensierata e leggera El Picador, dal sapore fortemente mariachi e già ti trovi con il sombrero in testa. Con la successiva Ballad of Cable Hogue, però, si sconfina in una rivisitazione del country-folk della tradizione americana con qualche rimando al Messico, soprattutto quando entrano i fiati. In più, il brano vede duettare in un botta e risposta Joey Burns, in inglese, contrapposto al suadente cantato in francese di Marianne Dissard; il risultato è un’interessante e gradevole melting pot che mette in luce le capacità compositive e di versatilità musicale della band di Tucson.

La nuova influenza post-rock è anticipata dalla breve e strumentale Ritual Road Map e soprattutto dalla successiva delicata, ma crescente di intensità, noir e jazzata Fade, uno degli apici emotivi del disco, con la voce soave di Joey Burns che ci accompagna in questo viaggio ed il preciso e pregevole lavoro alla batteria, soprattutto negli accenti, dell’altra metà fondante dei Calexico, John Convertino, che dà una dimostrazione degna di nota, evidenziando tutta la sua perizia tecnica anche in territori jazz. Le atmosfere sognanti sembrano ricordare quelle dell’ottimo (ed unico purtroppo) album degli OP8, “Slush” del 1997, in cui Burns e Convertino univano le forze ad Howe Gelb, vero mito vivente di quelle sonorità desertiche tipiche dell’Arizona, con il quale per altro avevano già collaborato in passato nei Giant Sand, ed alla cantautrice più misteriosa ed alternativa degli anni 90, Lisa Germano.

Questa lieve irrequietezza viene subito smorzata dalla successiva e solare Crystal Frontier, forse il brano più pop ed orecchiabile del disco, quasi una specie di versione alternativa dei Gipsy Kings, per poi tornare in territori post-rock malinconici e quasi gitani grazie agli archi ed all’utilizzo della fisarmonica della strumentale e notturna Untitled III, che poi ha una sorta di reprise più avanti con Untitled II. La sussurrata ed ottima Sonic Wind continua nello stesso intento, ma con l’aggiunta della flebile voce e con un ritmo più sostenuto che richiama vagamente il tango argentino. I toni mesti ma in salsa messicana proseguono con un altro brano strumentale, l’intensissima e struggente Muleta, che potrebbe tranquillamente far parte della colonna sonora di un film di Tarantino e che mostra ancora una volta la bravura dei Calexico negli arrangiamenti, così come nell’ottimo utilizzo della pedal steel guitar.

Mid-Town è un altro brano strumentale e percussivo, una sorta di riuscito post-rock in salsa latino-americana, ma con le più canoniche, in termini di forma canzone, Service and Repair e Drenched si torna nel deserto dell’Arizona e si fa sentire nuovamente la più classica tradizione musicale americana. Dopo un breve intermezzo sperimentale, ma anche trascurabile, 16 Track Scratch, il disco si avvia verso il finale in chiave messicana con Tres Avisos, inizialmente distinta da accorate e sommesse atmosfere con splendidi archi in risalto e poi nella seconda parte più ritmata e caratterizzata da echi gitani. Chiude definitivamente il tutto il post-rock strumentale sospeso ed etereo della sognante Hot Rail.

La caratteristica che rende sicuramente molto piacevole l’ascolto di “Hot Rail” è la leggerezza di fondo nonostante i brani siano strutturati, variopinti ed articolati, grazie anche alle splendide, carezzevoli ed armoniose melodie che i Calexico hanno saputo creare, oltre all’ecletticità di musicisti davvero capaci. C’è inoltre la peculiarità, per niente scontata, di riuscire ad evocare quell’affascinante e lontano mondo di frontiera, anche se li si ascolta chiusi in una piccola cameretta all’interno di una città grigia e trafficata, molto lontana da quell’immaginario cinematografico descritto in musica alla perfezione dai Calexico.

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