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Il mondo mutante di Frank Kozik

frank kozik

Gli studiosi ipotizzano che le comunità cosiddette primitive scegliessero i soggetti da imprimere sulle pareti delle caverne a seconda di come il suono si propagava in quegli spazi, ora enormi, ora angusti. Più l’eco delle voci si spandeva, più la taglia degli animali coinvolti nelle scene di caccia saliva di grado, mentre se i suoni emessi erano, come diremmo ora, “dry”, più le bestie erano piccole e agili. Il pericolo, il suono e il tratto erano legati indissolubilmente.

Cosa c’entra con Frank Kozik tutto questo? Semplice: più la band che decideva di affidarsi a lui per una copertina era grave, più il risultato era ferale. Bestie di ogni sorta, nessuna di esse normale. La società americana sbattuta sotto gli occhi del mondo falcidiata dalla pop art mutante di un artista completamente diverso dagli altri. I mostri di un mondo palpabile divenivano gli incubi impressi in copertina. Non solo di animali era però fatta l’arte di Frank, abbracciava tutto lo scibile monstre, tutto ciò che poteva farti accapponare la pelle o incenerire la pazienza del parroco di turno.

Nato nel 1962 a Madrid, padre americano (di origini polacche, come attesta il nome) e madre spagnola, i genitori si separano prima della sua nascita e lui rimane in Spagna. In quegli anni la penisola iberica è ancora sotto il giogo di Francisco Franco, un periodo oscuro e difficile per chiunque, figurarsi per qualcuno la cui immaginazione viaggia a velocità diverse da quelle dei coetanei, a maggior ragione considerando che è stato cresciuto in due realtà famigliari differenti, una destrorsa (che gli permette di non essere vittima di crimini, di andare in spiaggia senza problemi e tutte quelle cose che a tanti erano precluse) e l’altra privata dai diritti civili e in opposizione al Jefe Franco. Gli occhi di Frank sono catturati sin da subito dai palazzi e da tutto ciò che potevano catturare e ogni settimana per una cosa come due lustri si reca al Museo del Prado che è proprio dietro casa e si affranca dal terrore franchista nutrendosi di Bosch, Goya, El Greco, Velazquez, Botticelli, Caravaggio. Fa tutto da sé, spulcia atlanti, libri d’arte e fumetti in egual misura (come Sun Ra, che invece li alternava alla Bibbia), si crea una realtà pop-art ad hoc e disegna, molto, sin dal 1967. Fate i vostri calcoli, con calma.

All’età di 14 anni il padre torna e lo porta con sé dall’altra parte dell’Oceano, dandogli di fatto una seconda data di nascita. Va a scuola, si fa sbattere fuori, si schianta d’erba, scopa. Un altro passo. Immerso nel mondo allucinatorio che è l’America di fine ’70 si vede immerso nella controcultura. Sono tante le band che si forma e che gravitano attorno a Frank, che pure prova a suonare, senza successo. Si ficca nei guai, entra nell’Aviazione ed ecco che Austin, Texas, schiude le sue tumescenti gambe per lui. Mette radici, il caldo e l’assurdità del posto lo cooptano. Dai club esce musica schizoide, laida, uno straziante connubio di ieri e domani, con l’oggi come pedana di confronto tra due schermidori sbronzi e strafatti. È qui che i Butthole Surfers e gli Scratch Acid si palesano al giovane Frank che, a vederlo, sembra tutto tranne che uno della loro cricca. Non è come Winston Smith, riconoscibile tra mille, no, Frank lo guardi e sai che hai a che fare con una persona del tutto normale. Ma dietro la barba e gli occhiali si cela l’inferno (e sotto la camicia un reticolo devastante di tatuaggi).

La fascinazione brutale per quel pop a colori sparati dritti in faccia diventa ben presto il trampolino di lancio verso una piscina acida. Pubblicità (e molta ne farà, perché le grandi compagnie nell’epoca del grunge volevano “vendere merda ai ragazzini” e Frank accetta le proposte e commercializza la merda di cui sopra, zappianamente “siamo qui solo per i soldi”), strip, cartoni animati, telefilm, nulla è tanto sacro da non passare dal tritacarne folle di Kozik. Prende Kennedy e aggiunge uno spruzzo di sangue che gli esce dal cranio, una bandiera americana alle cui stelle sostituisce una svastica a sottolineare come il “paese delle libertà” non sia poi così tanto libero (Ice-T e i Body Counts ringraziano), cartoonizza i mostri gwariani pronti a far cagare sotto due piagnucolosi bambini, infila Charles Manson ovunque (il celebre “Love American Style” su tutti), conigli come piovesse, insetti, donne che hanno a che fare con gli insetti e con alienazioni lovecraftiane. Quali sono i suoi poster preferiti, gli chiesero e lui rispose “quelli dei Butthole Surfers”. È giusto così. L’America a pantaloni calati davanti alla TV, irradiata dalle immagini mostrificate dalla propria mente contorta, resa reale, nelle peggiori bettole e con la musica più atroce e assurda.

Arriva il 1993, è già a San Francisco da un po’, e i Melvins chiedono i suoi servigi. Farà la differenza, la copertina di “Houdini”. Sono già un culto, Buzz Osborne e Dale Crover, ma di sicuro non è l’impianto grafico a rendere onore a quello che suonano. Le copertine di “Ozma”, “Bullhead” e “Lysol” sono quanto di peggio possa racchiudere un disco gigante. Il passo cambia, i bambini, sorridenti d’innocenza, che giocano con un cane a due teste e all’interno i suoi allegri amici Ducky, Piggy, Penguy e Sealy, tutti bifronte, tutti tramutati nell’orrore che serpeggia nelle strade dei sobborghi racchiuso nei brani che ne fanno il capolavoro definitivo. Sul retro il trio, completato da Lori Black, trasfigura in un film horror di serie Z, States allo stato brado, che marcisce e il puzzo si infiltra nelle narici. Lui che gli Stati Uniti li adorava (sfido io, dopo 14 anni di Francisco Franco), che non ha fatto politica per immagini ma immagini che sanno di politica lo stesso.

Dona le matite all’ultima copertina degna di nota (e pure l’ultimo disco, se è per questo) degli Offspring, quell’”Americana” che si prese tutta MTV e i kids e i soldi. Fuori il mostro, l’insetto compagno di giochi d’infanzia, dentro l’inganno dei super singoli. Leggenda allo stato puro. La grafica che fa il disco e non viceversa, anche quando si disallineano. Quando invece si allineano nasce il laido packaging dell’omonimo debutto dei Queens Of The Stone Age, tutto tette e “Weird Tales”. Delizia graFica.

Nel 1994 alcuni suoi amici musicisti si lamentano che nessuno li vuole pubblicare. Forte di un’etichetta precedente (la Rise) infonde vita nella sua Man’s Ruin Records. I pianeti si allineano e la label darà i natali a tanto di quel rumore perfetto, marcescente e spettacolare da fare invidia a quelle storiche già venute o ancora da venire. Un roster ciclopico che in sé racchiude Chrome, Kyuss, Dwarves (ai quali cucirà addosso le copertine meno sporche della discografia di questi demoni pornografici), Hellacopters, Turbonegro, Zeke, Unsane, Iron Monkey, 7 Year Bitches, Unida, High On Fire e pure i nostrani Six Minute War Madness con il 7” “SMWM” e la sua micidiale cover in odore di space-age cinese. La filosofia dell’etichetta era semplicissima: introiti divisi a metà, “io non vi dico cosa registrare, voi non mi dite cosa disegnare”. Punk allo stato brado, ora e sempre.

Anche quando la pop-art si infiltrerà in via definitiva nel suo portfolio, con le statue colorate e i giocattoli sarà sempre l’essere estraneo al mondo eppure così immerso nelle sue tortuose vie di Frank Kozik a fare di lui l’ultimo artista pop vivente. Ora che non c’è più ho voluto ricordarlo così, raccontandolo in breve, lasciando a voi, se non lo conoscete, l’onore di tuffarvi nei suoi incubi in technicolor per capire come, senza di lui, non solo la poster-art sarebbe più povera, lo sarebbe anche la musica. Se invece lo conoscevate, suonate un disco qualsiasi dei suoi e piangetelo, giustamente. Io lo farò. Per fortuna c’è stato. Grazie Frank.

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