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Back In Time

“Shrink”, i venticinque anni del capolavoro minore dei Notwist

Ci sono album inspiegabilmente sottovalutati. “Shrink” dei Notwist è decisamente uno di questi. In un universo parallelo, probabilmente quest’album sarebbe stato considerato un capolavoro, sulla falsariga di “Kid A”  o “Amnesiac” dei Radiohead. Nel nostro universo, invece, il quarto album in studio del gruppo dei fratelli Markus e Micha Acher è entrato in punta di piedi venticinque anni fa (parentesi riflessiva: l’anno in questione è il lontano 1998. Ci rendiamo conto della portata innovativa nel panorama musicale dell’epoca?), senza attrarre l’attenzione che avrebbe suscitato poi, pochi anni dopo, il loro indiscusso capolavoro “Neon Golden”. Certo, quest’ultimo è definibile un album fuori dal normale: trasuda bellezza in ogni sua nota elettro-pop, in ogni suono armonico e in ogni parola. Tuttavia, già cinque anni prima, in “Shrink” è possibile ascoltarne il preludio, le sfumature propedeutiche a quello che poi diverrà a tutti gli effetti il loro marchio di fabbrica (probabilmente una delle metamorfosi rock più riuscite tra gli artisti recenti!).

“Shrink” crea un’equilibrata fusione tra gli elementi dei lavori precedenti e la vena alt-metal e punk, spingendosi verso l’alt-rock e l’indie rock. La voce cupa di Markus, il basso di Micha e Messerschmid si uniscono qui ai vincenti arrangiamenti di Gretschmann e ai numerosi strumenti ospiti: sassofono tenore, clarinetto basso, flauto, violoncello, contrabbasso. Il risultato? Sonorità lunatiche, che subiscono l’influenza (e il fascino) del jazz e del post-rock. In atmosfere indolenzite e crepuscolari si dipanano i dieci brani, tra cui tre strumentali, allontanandosi dallo stile nevrastenico degli esordi. I testi sono evocativi e oltremodo astratti, per consentire all’ascoltatore una propria lettura dell’animo e una personale interpretazione che si attacca alla pelle, come fosse colla. 

In apertura troviamo Day 7, in cui è evidente l’influenza di Gretschmann. Un ipnotico trionfo di percussioni di oltre due minuti apre la strada al resto della band: il ritmo insistente e ossessivo di Messerschmid, il basso sfocato e le chitarre pulite, la voce dolente e vulnerabile di Markus che canta: “I count the letters of your name / I count the days ’til you / are here again / Day 7 / And I’m love galore”. Poi arriva Chemicals e sembra quasi di ascolare i New Order. Una sintesi perfetta tra elettronica e campionamento, melodica e molto indie pop, risulta di facile ascolto. Another Planet, invece, ha note quasi emo-core, oscura ed enigmatica: “You are another planet cause you are / You stare and kiss me from above, don’t you? / Say why you need no reason to deny / Say why you kiss me from above, don’t you try / You lose your planet if you try”

Tra le varie influenze quella jazz è riconoscibile soprattutto nel brano strumentale Moron: fiati e clarinetto basso mixati a tastiere elettriche e ad un assolo di sax tenore, il tutto sporcato di rock. Sulla stessa scia, l’altro brano strumentale N.L.. Le successive No Encores ed Electric Bear continuano con lo scambio tra chiatarre, bip elettronici e voce. L’apice della sintesi dei Notwist la si raggiunge, però, con la title track: la chitarra insegue le percussioni in una melodia tanto isistente quanto lacerante: “Reach the light / That’s why I / Never, never / Want to go from / Here” – canta Markus sul finale. Segue una vibrante melodia di ben sette minuti, Your Signs, per poi chiudere con uno strumentale da capogiro, 0-4.

“Shrink” dei Notwist è un capolavoro minore tristemente sottovalutato. Un’eccezionale fusione di stile, dall’indie all’elettronica, passando per l’ambient e le influenze jazz, pur conservando un impulso rock. A venticinque anni dalla sua pubblicazione restano intatte, ad ogni ascolto, le suggestioni oniriche evocate dall’umanità della voce di Markus e dagli scintillii originali ed innovativi degli strumenti. Un album che, ancora oggi, vale decisamente la pena ascoltare

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