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Interviste

Un unico linguaggio musicale per un mondo che cambia: intervista ai Mombao

Foto: Giulio Favotto

In un mondo complesso e imprevedibile può la musica essere un linguaggio comune? Come si possono costruire ponti sonori tra universi in apparenza distanti? Possiamo dialogare con culture e popoli di altri continenti, senza muoverci dalla nostra casa?

Domande complesse, forse impossibili, ma a cui i Mombao rispondono con il proprio album di debutto “Sevdah”, uscito il 21 aprile e distribuito da AWAL.

Le dieci tracce rappresentano un viaggio onirico alla scoperta di orizzonti musicali inesplorati, dove canti tradizionali dell’Est Europa si ibridano con la techno, scenari desertici si mescolano con atmosfere oscure da club e la voce umana si fonde con l’elettronica. Un sincretismo in cui culture differenti si completano in armonia, dando vita a quel linguaggio universale a cui accennavamo.

Un obiettivo essenziale per la ricerca artistica del duo, con cui abbiamo discusso di influenze musicali inaspettate, live dal sapore mistico e desiderio inesauribile di sperimentare.

Li abbiamo incontrati.

Una prima domanda di rito: chi sono i Mombao e come presentereste la vostra proposta a chi segue Impatto Sonoro?

Mombao è un incontro tra culture, luoghi e tempi diversi, un dialogo tra intelligenze corporee e intelligenze artificiali. Mombao è un progetto musicale di stampo performativo, siamo un duo (batteria, sintetizzatore e voci) che suona al centro della sala, circondato dal pubblico e lavora sull’ipnosi collettiva a partire dalla rielaborazione di canti popolari riarrangiati in chiave techno/punk e brani originali.

Entriamo maggiormente nel merito: come nasce il progetto e l’incontro tra voi due?

Nasce da un’amicizia e dalla voglia di sperimentare percorsi musicali, artistici e performativi senza porsi limiti, dalla voglia di esplorare strade e percorsi non battuti. Ci siamo conosciuti all’università e anni dopo abbiamo deciso di fare musica assieme ma non avevamo in mente una direzione precisa: non c’erano i canti in lingue diverse, non c’era l’argilla, non c’era il rituale performativo con le persone intorno, non c’era un’idea chiara dell’immaginario che ci rappresentasse. Sono tutti elementi che sono emersi gradualmente, facendo molti errori e finendo spesso in vicoli ciechi, ma sempre con la voglia di sperimentare strade nuove e sentieri alternativi, fidandosi della presenza dell’altro, dell’istinto e avendo una grande propensione per la surrealtà.

Il 21 aprile ha segnato la data di uscita ufficiale del vostro album “Sevdah”: come lo descrivereste in breve a chi si approccia per la prima volta ai Mombao?

Sevdah” è un flusso eterogeneo tra lingue e luoghi diversi, un viaggio tra campi di sole, conventi abitati da robot, grattacieli abbandonati in deserti e giungle di felci dentro a club di casse dritte.

A colpirmi in particolare è titolo dell’album in bosniaco e il suo significato. Vi andrebbe di raccontarci meglio il perché di questa scelta?

È una parola di lontane origini persiane che significa “affondare consapevolmente nella malinconia fino a raggiungere uno stato di grazia e poesia”. È una parola che abbiamo scoperto durante un tour nei Balcani e ben rappresenta la sensazione che alcune volte proviamo quando ci sentiamo sradicati, quando ci accorgiamo di quanto ci manca una ritualità condivisa che ci aiuti a dar significato a questi tempi complessi fatti di cambiamenti radicali. La sevdah è un sentimento che provavamo ma a cui non sapevamo dare un nome. Entrambi lo provavamo per ragioni completamente diverse, per quanto mi [Damon] riguarda in quel periodo stavo ragionando molto sulla mancanza di radici, sull’Iran, la terra in cui è nato mio padre e su tutto ciò che non so della sua (nostra?) cultura. Riflettevo sulla consapevolezza che non avrei mai potuto capire davvero fino in fondo alcuni aspetti della sua personalità perché, di fatto, non conosco la sua lingua madre.  Tutti questi discorsi si sono successivamente incontrati nella necessità condivisa di esplorare musiche popolari da tutto il mondo, nel tentativo utopico di trovare una musica dell’umanità contemporanea e performare in una maniera che potesse creare uno spazio che soddisfacesse il bisogno di questa generazione di tornare ad avere una ritualità piena di significato. Il mondo si sta mescolando, quale è il canto popolare di questa nuova globalità? Abbiamo perso i riti di passaggio ma ne abbiamo tutti bisogno, quale è il nostro ruolo di artisti in questa mancanza?

I vostri singoli precedenti rivelano influenze sonore ampie quanto variegate: dall’etno-music fino alla techno, passando per l’art rock e la psichedelia. Ci sono riferimenti musicali (e non solo) che ritenete prevalenti? Come si sviluppa
questo processo di ibridazione?

I riferimenti sono tanti e sono vari, tra di noi abbiamo riferimenti musicali molto diversi e in qualche modo ci si ritrova in una terra di mezzo non ben definita, ma ci piace proprio per il fatto di non essere facilmente etichettabili. Spesso sono brani che nascono da improvvisazioni in sala prove o da rimaneggiamenti di canzoni popolari incontrate lungo il nostro percorso, a volte decidiamo di partire proprio da dispositivi performativi o tecnologici e ci lasciamo ispirare dai limiti che questa scelta implica. Poi una volta arrivati in studio li sottoponiamo al nostro produttore Giacomo Carlone (che ha registrato, mixato, prodotto, curato e cesellato tutto il nostro disco). La sfida è stata quella di tradurre un linguaggio fortemente performativo in un linguaggio discografico, e questo processo, fatto per ogni brano, ha richiesto scelte e processi a volte completamente diversi. 

Parlando ancora di composizione e produzione, quanto e perché ritenete importante sperimentare, soprattutto alla luce di un panorama musicale mainstream sembra aver perso questa capacità?

Penso che la nostra sperimentazione nasca dal porsi fino in fondo con sincerità una domanda molto semplice: “Che cosa mi accende?”. Ovvero: quali sono le scelte artistiche (e non solo) che ci riempiono di significato, che rispondono alle nostre necessità interiori? Nel nostro percorso ci poniamo costantemente questa domanda – per nulla scontata – che spesso ci permette di trovare risposte non scontate. Questo ci porta molte volte a concentrarci sul processo, a porci delle domande su come vogliamo affrontare il percorso invece che su quale tipo di risultato vogliamo ottenere.

La dimensione dei vostri live ha aspetti quasi rituali e sembra affondare in
un’esperienza dal sapore mistico. Quanto lavorate a questo aspetto e cosa volete comunicare?

Il live è sicuramente una parte potente e centrale del nostro percorso ed è uno degli aspetti che curiamo di più: vogliamo creare uno spazio in cui abbandonarsi a un respiro collettivo, in cui potersi affidare al punto del corpo che non pensa, in cui potersi sentire parte di una comunità temporanea a sua volta connessa a una comunità più ampia che trascende lingue, tempi e confini. Anche la scrittura dei brani riflette questo focus sul live: riarrangiamo spesso i brani in base alle necessità dei concerti, allungandoli, modificandoli, accelerandoli, legandoli l’uno all’altro. 

Sempre a proposito di live: avete avuto esperienze internazionali che spaziano
dall’Italia al Nord Africa passando per i Balcani. Qualche data o luogo vi sono rimasti particolarmente nel cuore? Se sì, sapreste dire perché?

Anselmo: È davvero difficile da dire, ci sono state delle date davvero intense e con risposte dal pubblico così potenti da lasciarci sgomenti e grati. Forse una delle date più intense dello scorso tour è stata quella di Torino: il locale strapieno di persone sudatissime disposte tutto intorno a noi, che ondeggiavano come un’unica entità insieme a noi, alcuni in trance, alcuni ci hanno abbracciato piangendo dicendoci che era stato il concerto più bello della loro vita. Alla fine del concerto ho avuto una scarica potente di rilascio emotivo, ho pianto intensamente, sentivo il corpo che vibrava per tutta la gratitudine che stavamo ricevendo, sentivo i palmi delle mani pulsare infuocati.

Damon: Per me invece Argo16 a Mestre. A un certo punto ho sentito la schiena accendersi di diamanti trasparenti e scorrermi su, fino alla testa. Una volta raggiunto il capo ha cominciato a solleticarmi l’interno del cranio e una grande risata mi è sgorgata dagli zigomi e dalle viscere. Ho guardato un ragazzo in prima fila che aveva gli occhi ribaltati e si stava scuotendo come attraversato da corrente elettrica. Lì ho capito che eravamo riusciti a creare uno spazio protetto in cui nessuno si sentiva giudicato nel trovare il proprio modo di ballare una musica come la nostra che è indubbiamente ballabile ma la forma del ballo non è immediata o conosciuta, è da inventare. Il movimento del corpo durante i nostri concerti non è formalizzato quindi c’è spazio per l’espressione personale, la scoperta. A quel punto ho pensato che ero libero di ridere, ho cominciato a ridere e non riuscivo più a smettere, sentivo che ero fortunato a essere riuscito a costruirmi uno spazio in cui esprimere una parte folle di me e che quella parte folle non solo poteva esprimersi ma, anzi, era socialmente richiesta, necessaria. Così ho riso di gusto e ho continuato a farlo fino alla fine del concerto: sembravo un satiro.

Portate nel vostro bagaglio anche delle esperienze di residenza artistica, una pratica cara soprattutto al mondo del teatro e delle performing arts. Cosa avete imparato da queste esperienze? Vi va di raccontarci come sono nate? 

Sono tutte esperienze che ci hanno permesso di apprendere da linguaggi diversi dal nostro e quindi di immaginare il concerto non semplicemente come dei musicisti che suonano su un palco ma come un atto performativo complesso che può includere dispositivi e pratiche molto differenti. Questo approccio ci ha anche permesso di dialogare con realtà importanti al di fuori della musica: dall’anno scorso siamo diventati artisti associati di BASE Milano, con cui collaboriamo per diversi progetti tra cui la curatela per il festival Farout, progetti artistici e laboratoriali sul territorio e residenze artistiche con la coreografa Elisabetta Consonni e il collettivo teatrale Corps Citoyen / Milano Mediterranea, anche loro artisti associati. Le altre realtà che ci hanno plasmato negli anni sono stati sicuramente i laboratori di Lucia Palladino e Neutopica, il teatro Valdoca e Kokoshka Revival.

Su un fronte per certi versi opposto e più “mediatico”, come descrivereste 
l’esperienza a X Factor nel 2021?

Meriterebbe un’intervista a sé la risposta a questa domanda [ride]. Ci ha insegnato molto, ci ha fatto capire come funziona dall’interno un apparato così grosso come un programma televisivo nazionale, quali sono le logiche e le contraddizioni che lo muovono. E ci ha aiutato molto per permettere alla nostra musica di raggiungere persone che altrimenti avrebbero avuto più difficoltà a conoscerci.

Come sempre, lascio quest’ultima domanda come “spazio aperto” in cui potete elencare i vostri progetti imminenti, aspettative e piani futuri che vi va di condividere con i nostri lettori e lettrici. Grazie mille ragazzi e buona fortuna per tutto!

Quest’estate promuoveremo il disco con un tour in tutta Italia, abbiamo già iniziato le prime date e continuano ad arrivarci nuove proposte per i prossimi mesi. Per l’autunno ci sono già dei progetti in ballo con BASE Milano, e nel frattempo stiamo immaginando molte cose diverse: collaborazioni con compagnie teatrali e istituzioni delle perfoming art, la registrazione di nuova musica con DJ e producer techno e IDM, un tour nel nord Europa, un disco interamente registrato live. Le idee sul tavolo sono tante, capiremo quali strade imboccare nei prossimi mesi!

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