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Khanate – To Be Cruel

2023 - Sacred Bones Records
drone metal

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Tracklist

1. Like A Poisoned Dog

2. It Wants To Fly

3. To Be Cruel


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Certe cose, così come sono scomparse, riappaiono in determinate condizioni “atmosferiche”, dalla nebbia, lo zolfo, l’oscurità e là rimangono, sempre che si parli di band come i Khanate. Non conoscete i Khanate? Che ci fate su ImpattoSonoro?

Al di là della personale simpatia di chi scrive è evidente serva un ripasso poiché, dall’uscita di “Clean Hands Go Foul”, di anni ne sono passati 14 (quattordici). I Khanate sono: Stephen O’Malley (qui tra parentesi l’ovvio, il minimo indispensabile per leggerci: Sunn O)))), Alan Dubin (OLD, Gnaw), James Plotkin (che, oltre ad essere collega di Dubin negli OLD è anche mago del mix/remix al servizio di nomi giganteschi che vanno da John Zork a Keiji Haino, dagli Isis a Merzbow, passando per Fennesz, Nadja, Oneothrix Point Never e Marnero, solo per citarne una piccolissima parte ma per darvi un’idea di malanimo) e Tim Wyskida (attualmente tra le fila degli immensi Blind Idiot God). Compiti fatti, per ripassare lascio a voi l’onere della scoperta. Se già sapete siete pronti al massacro.

La storia recente vede O’Malley e Wyskida, a biglie fermissime, incrociarsi col benestare di Drag City (sempre di storia dell’indie americano si parla) che li vuole assieme per una compilation. I due si rendono conto sin da subito di aver ancora qualcosa da far dire alla band che fu, prenotano una sala all’Orgone di Woburn, Inghilterra, studio di registrazione piazzato nel nulla assoluto che, durante la Seconda Guerra Mondiale, fu un’emittente radio che sparava, dai canali Inglesi, programmi radiofonici in finto tedesco spedendoli dritti nel cuore della Francia occupata. Perfetto, per tanto malessere, tanta follia rimasta ancorata a prima degli anni ’10 di questo Nuovo Millennio pronto per l’autodistruzione della specie.

Un bisogno di vendetta…sì, ma contro chi e perché?”, sono le domande che si pone Dubin parlando dei contenuti ad alto tasso di devianza di “To Be Cruel”, della cui uscita si occupa questa volta Sacred Bones (che raccoglie lo scettro khanatiano dell’ormai scomparsa Hydra Head). Questa volontà di distruzione è ben udibile nei “soli” tre brani che vanno a comporre il disco. Ogni batosta è ben calibrata, il rumore è viscerale e diventa un tutt’uno con l’ambiente costruito su basi fuligginose, col silenzio come parte integrante del volume, il fastidio che percorre questi spazi vuoti attanaglia i polmoni e li stritola. Il salmodiare dubiniano, le grida che si strozzano in gola, sono viscose e fanno paura (c’è un passaggio in It Wants To Fly, “There’s a light in my hand”, che è tanto “viscido” da sentirtelo addosso, come una creatura lovecraftiana che prende vita per toglierla a chi la incrocia). Non sono tante le cose a far paura, nel 2023, ma questa è una di quelle.

I suoni sono liquidi, magma nero pece che cola dalle pareti, organici e ampi, una cattedrale doom senza fine, tanto paiono allungarsi come ombre lungo le pareti. Ogni colpo è il rintocco di un’enorme campana a morto divorata dalle intemperie, l’eco una spaventosa promessa di fine, lenta ed esasperata all’estremo, ingurgita lo spazio e lo caga completamente martoriato. In breve: tappeti di dolore assoluto.

Come un OM intonato da un’ordalia di monaci deviati rinchiusi da secoli, “To Be Cruel” è fusione totale di mente e corpo decomposti, un canto apocalittico che porta la pazzia verso un altro piano di non-esistenza. Quattordici anni sono ben valsi l’attesa.

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