“Scusate?! Ragazzi! Non potremmo, non so, suonare un pezzo, o due? Qualcosa?” La camera allarga l’inquadratura catturando la zazzera bionda di Josh Freese, seduto dietro la batteria mentre attende che i Foo Fighters la piantino di farsi i cazzi loro. Poco prima avevano fatto prendere la porta a Danny Carey (con al guinzaglio due barboncini, per inciso), Tommy Lee e Chad Smith. I FF saranno anche in là con gli anni ma non hanno smesso di comportarsi da pirla, nemmeno dopo il periodo tremendo conseguente la scomparsa di Taylor Hawkins, punta di diamante del gruppo e batterista sopra le righe. Perché se uno come Dave Grohl ti tiene tanto in considerazione, e parliamo di uno che la batteria rock l’ha rivoluzionata (vi piaccia o meno è così), qualcosa vorrà pur dire. Non dev’essere stato semplice scegliere il suo successore.
Il live stream che la band ha mandato in onda ieri per presentarlo ai propri fan non poteva che iniziare leggero per poi partire come un missile. Suonano un pezzo o due, sì. Iniziano con All My Life e Freese si inserisce subito a incastro sicuro, da lui parte la parte centrale del brano, un bridge infernale a mo’ un’aggressione di groove stretto come un paio di pantaloni lavati alla temperatura sbagliata, strizza i coglioni. Freese è così, piazza un paio di fill poi parte uno stomp atterraelefanti e tutti sono costretti a seguirlo sulla tortuosa strada infernale che ha preso. Lo vedi da come si muove che la batteria è estensione del suo corpo e, se ci credete, pure dell’anima. Ritmi sanguinosi come piovesse plasma, un suono unico. Non servirebbe nemmeno vederlo per capire che c’è lui, là dietro, ad amministrare il ritmo, a far muovere il gruppo, che quasi fatica ad assimilare tanta energia (seppure sia tutto già preparato e programmato).
Non dimenticherò mai ciò che mi disse un mio compagno delle superiori, il giorno seguente al concerto degli A Perfect Circle (il tour era quello di “Thirteenth Step” e io l’avevo bucato perché avevo speso tutti i soldi per un altro concerto di merda che più di merda non si poteva, ma sorvoliamo), alla batteria proprio l’ex-Vandals: “Lo guardi e sembra un fiore che schiude i petali.” Verissimo, lo avrei scoperto anni dopo vedendolo in azione con i Nine Inch Nails. Freese è seriamente uno che ti cambia il sound. Si pensa che Trent Reznor non abbia bisogno davvero di qualcuno che renda i suoi brani più diabolici di quel che sono ma non è così e quella sera, dopo una performance tonante dei Tool, quella dei NIN fu esagerata e anche grazie a lui.
Classe 1972, Freese nasce il giorno di Natale in una famiglia di musicisti e ne assimila tutto ciò che può. Lascia la scuola presto, vorrebbe entrare alla Berkley (uno dei migliori istituti musicali degli Stati Uniti) ma non è cosa, non può. Non gli va nemmeno di fare esercizi al pad come sarebbe il caso di fare. Mette su i dischi che ama e ci suona sopra, imita i batteristi e, anche in questo caso, assorbe l’insegnamento, in pratica lo stesso percorso di molti, soprattutto coloro che non avevano soldi per prendere lezioni o entrare in questo o quell’istituto di pregio. Grohl fece lo stesso e i due si somigliano parecchio, infatti, pur suonando in maniera opposta. A 16 anni coglie l’opportunità di incidere album e da lì la sua vita cambia radicalmente. Non è solo membro dei Vandals sin dalla fine degli anni ’80, ma quella è la rampa di lancio. La gente lo nota, quasi li vedo immaginarsi come starebbe bene a riempire un vuoto ritmico che ad altri non riuscirebbe. Germoglia così l’essere session man, non è cosa studiata a tavolino. Le cose, spesso, accadono perché devono accadere.
Prima ancora di essere un “Vandalo”, spente 12 candeline, viene cooptato dal padre Stan, per suonare in una cover band di Disneyland, della quale era leader e tuba. A furia di macinare cover le cose si fanno serie, nella mente del giovane, si rende conto di essere una spugna ritmica che risputa fuori tutto in figure funzionali. Dopo nemmeno sette anni a notarlo è nientemeno che Dweezil Zappa. Il figlio musicalmente più prolifico di papà Francesco (eheh) pur non essendone davvero degno erede, vuole il Nostro su “Confessions”. Il disco è quel che è, una pera steroidale di chitarroni superrock (spesso imbarazzanti), ma la batteria fa la differenza, in qualsiasi brano sia Josh a suonarla, si sente. Accreditato qui e là come “Groove Master” è il nome giusto. Così giovane e già così potente, circondato dai mostri veri come Mike Kenneally oppure da altre giovani promesse del proprio strumento (leggi Zakk Wylde), il ragazzo fa la differenza. A questo punto sono già due le uscite a nome Vandals, e il gruppo è lanciato nell’Olimpo punk rock, forte della vena situazionista che li porterà ad incidere roba come “Live Fast, Diarrhea” o “Hitler Bad, Vandals Good” (ma dai?).
È di due anni dopo “Sarsippius Ark‘” degli Infectious Grooves, supergruppo nato dalla mente di Mike Miur. Nel ’92 Freese si era già prestato per “The Art Of Rebellion” dei Suicidal Tendencies ma qui il livello è più alto, è necessario più groove, per l’appunto e con una sezione ritmica da sturbo come quella costituita da Josh e Robert Trujillo il risultato è assicurato. Le parti di batteria sono anche in questo caso d’acciaio, con quei micro inserti di doppiacassa tanto cari (ne parla anche coi Foos durante il live stream, mica a caso), o assalti tanto brutali da tirare su dalla tomba John Bonham (Immigrant Song suonata così è ancor più allucinante e pesante ed se è una delle migliori cover degli Zeppelin in circolazione è anche grazie al drumming indemoniato).
Gli anni ’90 sono stati un pozzo senza fondo di novità un po’ per tutti. I progetti di Josh sono tanti ma, a 27 anni, essere chiamati da Axl Rose per entrare nelle fila dei Guns N’Roses è un balzo quantico. Due anni di contratto assicurati, concerti gigasferici, nulla a che vedere con la vita da punk vissuta fino a poco prima, ma anche il disagio di avere a che fare con una personalità, diciamo, particolare come quella del frontman. Sappiamo tutti com’è andata con “Chinese Democracy”, pure il fan più sfegatato si è rotto le palle di attenderlo, figurarsi un session man pieno di impegni come Josh. Le cose con l’allegra brigata andavano bene, pure con Axl non c’erano scazzi di sorta, ma senza un piano preciso a fare da bussola le cose non possono che finire male. Nonostante il contratto agli sgoccioli assicura a Rose che Buckethead sarebbe un sostituto perfetto di Robin Finck (che però rientrerà a breve nei ranghi) e così l’allampanato chitarrista di New Orleans entra a far parte della band, assieme a Bryan “Brain” Mantia, fortemente voluto dal cantate. Il rimpiazzo di Josh si rimette al lavoro e registra nuovamente le parti di batteria per quello che ancora per otto anni sarebbe stato un album fantasma, ma a Josh non importa se alcune sono paro paro le sue, pure le ghost note, a lui sta bene tutto. Lui vuole solo suonare e, sia come sia, i suoi crediti sono rimasti impressi nel libretto, come arrangiatore e se qualcuno gli parla di “Chinese Democracy” lui risponde che la title track di quell’album l’ha scritto lui, liriche comprese. Non tutti potrebbero fregiarsi dello stesso status di scrittore presso una delle band più blasonate del mondo e, checché se ne dica, quel pezzo è un gran calcio in faccia, e ve lo dice uno che non userebbe i dischi di ‘sta gente nemmeno come sottobicchieri.
Nello stesso periodo gli A Perfect Circle perdono l’elemento Tim Alexander ed ecco arrivare Josh in loro aiuto. L’idea di “prendiamo gli strumenti e andiamo a suonare” si confà molto di più al suo animo punk, di certo molto di più che piazzare il culo su van e aerei delle dimensioni di un intero quartiere cittadino. Si imbarca quindi nell’avventura collaterale di Maynard James Keenan che diventa ben presto una realtà a sé. “Mer De Noms” suona come suona anche grazie a lui. Si sente tutta la differenza tra il lavoro dell’ex-Primus e il suo, nel giro di un brano tutto cambia. The Hollow straripa, Magdalena è dolcezza e disperazione ma, anche, ritmica furente. La discografia iniziale della creatura di Billy Howerdel è tutta intrisa del drumming freesiano, in grado di distruggere un kit o suonarlo in punta di bacchette senza perdere un grammo di energia (Weak And Powerless è lì a dimostrarlo) e se c’è qualcosa che stona in “Eat The Elephant” è proprio l’assenza di Freese. Con lui staremmo parlando ancora oggi di un disco eterno e, invece, se chiedete in giro, nessuno lo nominerà come proprio preferito. Se lo fanno, mentono.
L’agenda freesiana in quel periodo è un macello vero e proprio e sul finire dei Novanta non sono solo gli APC a volerlo come motore delle proprie idee (o i Devo, se è per questo, sul loro album per me delizioso “Something For Everybody”, ultimo in carriera a quanto pare). A chiamarlo a sé è un altro cantante vicino all’idea di semi-dio del rock tutto: Chris Cornell. Nel leggendario e spettacolare “Euphoria Morning”. Quando non c’è Josh seduto con le bacchette in mano (e parliamo di gente del grosso calibro di Bill Rieflin e Matt Cameron) si sente. Le poesie cornelliane grazie a lui assumono forme mai scontate, le ballate semi-elettriche hanno un passo in più, pachidermico, tempi ben poco scontati e rendono i brani ancor più scintillanti. Lo sarebbero stati anche senza di lui? Non ci scommetterei.
Coi Nine Inch Nails è stato session man anomalo. Su “With Teeth” è Grohl (ancora e sempre lui) a far tremare i muri quando non sono le drum machine a fare da padrone assolute e a Freese toccherà poi riproporre live quelle ritmiche animalesche. Chi li ha visti dal vivo sa bene di cosa parlo: asciuga il lavoro ingombrante del batterista dei Nirvana e lo rende più tagliente che mai. Non ricalca e basta il lavoro fatto in studio, lo trasforma alla radice, e lo stesso dicasi per i brani meno recenti dei campioni dell’industrial rock. È ciò che Reznor vuole: ogni line-up (e sono state parecchie) deve creare un sound tutto suo anche se si ritrova a maneggiare roba scritta da altri una cosa come vent’anni prima. Quella line-up era feroce, i brani venati di hardcore sono ignobilmente diretti, e il batterismo chirurgico a dare quella spinta brutale in più. Distruzione completa della forma rock, ritmiche deraglianti, annientamento strumentale. Pure gli Offspring dal vivo con lui sembravano dei mostri (o almeno così mi suggerisce il nostro caro direttore, ché io live sottopalco mai li ho visti e mai li vedrò). Figurarsi i Nine Inch Nails.
Oltre a tutti i picchi creativi, Freese è pur sempre un lavoratore, e lui stesso lo dice in più interviste: “Il mio è un lavoro, mi sono confrontato con gente che adoro e con altri di cui non potrebbe fregarmi di meno, suonando roba che neppure mi piace.” Brendan O’Brien lo coopta per registrare il debutto di Brandon Boyd al di fuori degli Incubus. Un lavoro che sulle prime, Josh dixit, non prometteva nulla di buono e che invece si è rivelato divertente. Mi chiedo spesso cos’abbia pensato mentre lavorava per conto di Avril Lavigne (la batteria che sentite su Losing Grip è sua), degli Evanescence, dei 3 Doors Down, degli Static-X di “Shadow Zone” – non di certo i più ispirati – o dei Good Charlotte. Peggio ancora, i Puddle Of Mudd per non parlare dell’alter ego di Miley Cyrus, Hannah Montana o, per chiudere in bellezza, di Zucchero (sì, suona le percussioni su “Chocabeck”, prodotto sempre da O’Brien, che un giorno sta coi Pearl Jam, un altro con Marilyn Manson e alla fine passa il fia…microfono in sala di regia al buon Sugar Fornaciari). Magari si è anche divertito ma, come dicevamo, il lavoro è comunque lavoro e lui rispetta tutti, anche coloro che noi, alternativi da strapazzo, non abbiamo a cuore (tipo Bublé e Sting). Qui sta l’enorme differenza, anche se il contraltare a tutto questo sono stati di certo gli album con Queens Of The Stone Age, Mondo Generator, Rob Zombie, Danny Elfman, i Dwarves o le parti registrate per “South Park”, nella puntata del “Chef Aid”. Ma questa è solo una piccola parte del tutto.
Ebbe a dire, della sua realtà itinerante, senza fissa dimora in questa o quella band: “Ho ricevuto molte proposte per entrare a far parte di alcune band capaci che mi avrebbero permesso di guadagnare una montagna di soldi, ma io vivo bene con ciò che faccio e mi rende felice. Se fossi stato preoccupato per le bollette o le spese mediche forse mi sarei chiesto ‘Perché non sono entrato nei Blink-182?’, oppure ‘Perché non nei Foo Fighters?’. Beh, fanculo, non doveva andare così.”
E invece la vita è strana, perché oggi Josh Freese nei Foo Fighters ci è entrato davvero. Se “But Here We Are” sarà un buon disco lo capiremo solo tra qualche settimana (e saranno tutti cazzi di chi lo recensirà, a dirla tutta), intanto possiamo dire che, per i live a venire, non avrebbero potuto fare scelta migliore. Hawkins sarebbe d’accordo e su questo non ci piove.