Impatto Sonoro
Menu

Back In Time

I 40 anni di “Speaking In Tongues”: non ci eravamo mai divertiti così tanto con i Talking Heads

Amazon button

Eravamo piccoli quando “Remain In Light” attraversò la vita mia e di qualche amico mio. Quando, di conseguenza, nelle nostre vite entrò, tra le altre cose, anche Brian Eno. Cambiò tutto a quel punto. Noi che eravamo cresciuti con qualche (poca) canzonetta, tanto classic/prog/rock dei fratelli maggiori e che stavamo accogliendo (tra la disapprovazione dei fratelli maggiori) quel che gli anni ’80 ci stavano portando. 

Loro, i fratelli maggiori, mica li capivano i Talking Heads. Era la nostra cosa. Intellettuale quanto basta, ma troppo americana per loro. Troppo sospetta di “riflusso”, come dicevano quei reduci degli anni ’70 di lotta e di protesta. “Remain In Light” era avanti di un bel po’. Ed era tanta roba da assimilare per le nostre giovani menti. Eppure ce l’avevamo fatta. E senza farci nemmeno le canne: eravamo piccoli, come dicevo. 

Pure quando uscì “Speaking In Tongues” eravamo ancora piccolie, forse, ci piacque ancora di più, in quel momento, nella nostra piccolezza. Piccolezza che aveva faticato su certi passaggi di Remain In Light, con certi (poli) ritmi e suoni di quel disco. “Speaking In Tongues” era più lineare. In mezzo c’erano stati i Tom Tom Club di Tina Weymouth e Chris Frantz e non li avevamo capiti. Neanche ora li ho “capiti”, eppure in America si erano beccati un disco di platino. C’era stato anche “My Life In The Bush Of Ghosts” della ditta Byrne/Eno e quello lo avevamo “capito” un po’ di più per quando difficilotto. 

L’1 giugno 1983, “Speaking In Tongues” fa ripartire la giostra dei 4 Talking Heads insieme e senza Brian Eno. A posteriori 40 anni dopo, non possiamo che notare anche qui un disco di platino, laddove “Remain In Light” si fermò all’oro. I Tom Tom Club a qualcosa erano serviti. Tina & Chris sembravano avere una nuova confidenza adesso e si presero la scena per condurre le danze (letteralmente). I ritmi sono serrati, tosti. Tutto si semplifica. C’è poco da ricamarci sopra. Non c’è più Adrian Belew che fa tremare la sua chitarra e t’incrina i vetri di casa. Sostituito da Alex Weir, sempre fantasioso ma più discreto, più al servizio della canzone: lo sentite in Making Flippy Floppy. Più nel ritmo. 

Appunto: il ritmo. Non c’è più certo complesso afrobeat poliritmico che appariva nel disco precedente. Qui siamo al funk e ai confini della disco. Ascoltate Two Note Swivel, l’outtake che compare nella deluxe edition del 2005: se non fosse per la voce di David pensereste che è opera del Club di Tina & Chris. Evidentemente l’idea era che la gente doveva ballare, come aveva fatto con i Tom Tom Club. E ciò mentre Byrne canta alcune delle cose più allucinate che ha mai concepito, nel tentativo catartico di “stop making sense”. Ma noi non capivamo veramente i testi. Eravamo piccoli e d’inglese se ne masticava poco. Ad andarli a vedere ora c’è da restare a bocca aperta. 

Ho una ragazza che è meglio di questa
Ma tu non ricordi affatto
Man mano che invecchiamo e smettiamo di avere senso
Non la troverai ad aspettare a lungo
Smettila di avere senso, smettila di avere senso
Smettila di avere un senso, di avere un senso
Ho una ragazza, lei è meglio di così
E niente è meglio di questo (davvero?)

Girlfriend Is Better

È surrealismo, un pasticciare con le parole che non vuole portare da nessuna parte o “avere un senso”. 

Scatta in posizione
Rimbalza fino a farti male
Esci dalla linea
E finisci in galera
Portami un dottore
Ho un buco in testa
Ma sono solo persone
E non ho paura

Making Flippy Floppy

Il disco contiene un paio di canzoni che definiranno la band per i posteri, anche per coloro che non c’erano in quel 1983. Burning Down The House per esempio, o “This Must Be The Place”, da cui il film di Sorrentino (non il suo migliore) con Sean Penn. Ci piacevano molto le due canzoni, quando eravamo piccoli. Beh, 40 anni dopo, va detto che non sono questi i momenti più alti dell’album. Piazzate all’inizio e alla fine, in realtà il meglio accade dopo e prima. Cominciando da Making Flippy Floppy, dove il basso di Tina sembra surfare sul ritmo serrato di Chris e i synth fanno da contraltare al chorus. Entra poi il terzetto micidiale Girlfriend is BetterSlippery People-I Get Wild. Due funk, con tanto di cori appassionati e basso e chitarra sincopati. Poi la cassa in quattro, il ritornello urlato e il basso slappato di I Get Wild: uno stomp avvolgente. Cito volentieri anche Pull Up the Roots, un altro gioiellino definito dalla sezione ritmica. Per non parlare di Moon Rocks cui Tina & Chris imprimono un tiro come se corressero a 200 all’ora sull’autostrada, mentre aleggia lo spirito di Brian Eno in qualche ricamo ed effetto alla “Remain In Light”.

Visto a posteriori, “Speaking In Tongues” è l’inizio della fine. Da lì in poi, abbiamo continuato a seguire i Talking Heads fanaticamente e attentamente, mentre crescevamo, comprando tutti gli album che sfornavano. Nella speranza che si riproducesse la magia di “Remain In Light“ o, almeno, la voglia di ballare di “Speaking In Tongues”, noi che non è che proprio ballassimo tanto da piccoli. La verità è che ci siamo divertiti con questo disco all’epoca, come mai ci eravamo divertiti prima con le teste parlanti. Nemmeno con il punk o post-punk dei primi tre dischi (“Psycho Killer, q’est-ce que c’est? Fa-fa-fa-fa-fa-fa-fa-fa-fa-fa-fa….), nella loro progressiva evoluzione verso l’apoteosi. Noi che ai Talking Heads avevamo dedicato la band che avevamo formato in un liceo della periferia romana dove nessuno ci si filava. Eravamo le loro truppe abbandonate al fronte, ci sentivamo i loro fan periferici e trascurati, troppo giovani per aver visto il famoso concerto al Palaeur del 1980 e rosicavamo e non potevamo che sperare in nuovi picchi artistici ora che eravamo meno piccoli.

E invece continuarono i dischi platino e oro, ma gli ormai “vecchi” fan come noi rimanevano ogni volta spiazzati. Spiazzati dalle “canzonette” di “Little Creatures”. Dalla scontatezza di “True Stories”. Appena un pò rinfrancati da “Naked”. E poi basta, non serviva più andare avanti. Quanto si poteva ancora grattare il fondo del barile che, giunti al 1983, probabilmente era stato svuotato della maggior parte del genio e della novità che conteneva. Poi, a posteriori, da questo albero che appassiva fino a morire, ne sarebbero nati altri negli anni ’90, altrettanto gloriosi (un nome su tutti: Radiohead). E tutt’oggi, nuove band e artisti sono adepti delle teste parlanti (un nome su tutti: Squid). Ma è un’altra storia.

Questa storia di oggi, la celebriamo tornando piccoli e cantando tutti insieme: “BURNING DOWN THE HOUSE!” L’ho fatto qualche anno fa a un concerto di David Byrne e mi sono proprio divertito. Al Palaeur nel 1980 sono certo che non si sono divertiti così tanto, “Speaking In Tongues” ancora non c’era.

Piaciuto l'articolo? Diffondi il verbo!

Articoli correlati