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Back In Time

Un colpo di pala al thrash metal. “St. Anger”, i Metallica e gli anni perduti del cambiamento

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Ricordo distintamente un’intervista a Kirk Hammett in cui diceva, con fierezza e sfrontatezza, che nel nuovo album dei Metallica non ci sarebbero stati assoli. E se i fan li volessero? Che si ascoltino pure i dischi vecchi, a lui non interessa.

D’altronde è il 2003 e i Four Horsemen, anzi, Three, dopo il licenziamento – per chi scrive sciagurato – di Jason Newsted, reo di voler suonare altro (per inciso “Voivod”, che vede Jasonic al basso, è uscito proprio quell’anno, dunque da un certo punto di vista bene così), hanno alle spalle 22 anni sì di successi, ma anche di critiche feroci da parte di quello che oggi chiameremmo “fandom tossico” ma che allora era semplicemente una fanbase dedita al solo verbo del METALLO, scontento e del “Black Album” (“Venduti!”, gridavano già dai tempi di One, e con le ritmiche rallentate e le ballad da classifica è diventato “Traditori!”) e, forse con più ancora più risentimento, dell’accoppiata “Load” e “Reload”, dischi di rock duro, maturo, pregno di radici statunitensi che si spingono sempre più a fondo e intenso come ben poche altre volte erano stati ma, mortacci loro, non thrash metal. Evolversi, una brutta bestia per chi vuole solo bpm al fulmicotone e stop’n go à la Master Of Puppets vita natural durante.

In quel momento ai ‘Tallica di tutto questo pare non fregasse assolutamente nulla di far imbufalire i propri ammiratori più indomiti che non avrebbero nemmeno potuto, almeno ufficialmente, scaricare gratis da Napster le uscite future-e-quasi-certamente-non-gradite della band, avendo questa fatto guerra totale al nascente astro del peer-to-peer. Se avessero voluto ascoltare il nuovo materiale avrebbero dovuto comprarlo, volenti o nolenti (è andata poi in modo diverso, ma questa è un’altra stria). Se avessero voluto “St. Anger” avrebbero dovuto recarsi al negozio di dischi di fiducia per comprarlo, nascondendo la vergogna da metallari indomiti sotto miliardi di toppe e spille fissate alle giacche di jeans, perché “St. Anger” è figlio dei suoi tempi, tempi in cui il metal è ormai mutato in nu-metal e con i vecchi leoni del genere divisi in “flirtatori” e “stenui oppositori”. Non è come oggi, tempi strani in cui tutto si mischia e non si sa dove stare, no, all’epoca era o di qua o di là. O cagavi sui Korn oppure sbraitavi “Are you ready?” ad ogni piè sospinto. Forse è una visione un po’ troppo “romantica”, però accadeva, almeno in superficie.

St. Anger” è anche l’album della nascita delle supreme prese per il culo a Lars Ulrich (non che prima ne fosse immune…) causate dall’ormai famigerato suono di rullante che riporta alla mente un “fustino del Dash”, come spesso si sentiva dire in giro all’epoca. Il sottoscritto coi Metallica ha sempre avuto un rapporto ambivalente: i dischi classici, eccezion fatta per “…And Justice For All”, mi fanno rabbrividire e, seppur li possieda, non li riascolterò nemmeno pagato, mentre porto nel cuore “Load” e il suo gemello, le splendide foto di Anton Corbijn di un gruppo davvero maturo, i video di Until It Sleeps e The Memory Remains, e pure I Disappear, inclusa anche nella colonna sonora di “Mission: Impossibile II”. L’abbandono di uno dei miei bassisti preferiti, inoltre, da bassista mi ha lasciato con l’amaro in bocca. Come qualche anno più tardi con gli Alice In Chains in procinto di annunciare il nuovo cantante, le voci che si rincorrevano tra noi nerd erano tante ma la scelta ricadde su Robert Trujillo, che in quel periodo compariva nei video e nei dischi di Ozzy Osbourne, parte di una backing band da sogno che vedeva l’ex-Suicidal Tendencies sbaragliare la sezione ritmica assieme a Mike Bordin, altro ex di lusso, questa volta dei Faith No More. Ci venne da pensare che fosse una scelta stramba, considerando che dopo la prematura dipartita terrena di Cliff Burton la band aveva cassato l’amico Les Claypool in quanto “troppo funk” (o almeno questo è quel che dice il patron dei Primus) e, guardando il documentario “Some Kind Of Monster” il saporaccio sulla lingua non fece che aumentare poiché furono vagliati titani come Scott Reeder dei Kyuss, Twiggy Ramirez (allora alle quattro corde assieme agli A Perfect Circle) e Pepper Keenan dei Corrosion Of Conformity, tra gli altri. Ma ormai i giochi erano fatti e le posizione granchio di Trujillo e la sua energia hanno fatto la fortuna di tanti live, ma non di altrettanti dischi. In questo nessun problema, il compito di sostenere le mazzate di Ulrich fu affidato allo storico produttore Bob Rock.

(c) Anton Corbijn

E il disco? Se siete qui a sorbirvi i miei sproloqui e non lo avete mai ascoltato “St. Anger”, imho (come scrivono i giovani), resta un esperimento non azzeccato, di più. Racchiude tutta la frustrazione mostruosa di un periodo che più nero non si potrebbe, con Hetfield uscito dal tunnel delle dipendenze, la voce schiantata dall’affaticamento ma anche la carica necessaria per squagliare tutto solo gridando. I brani sono lunghe discese all’inferno, spesso un po’ troppo lunghe ma, da qui in poi, sarà il minutaggio elevato ad essere preferito per tutti i brani del gruppo. Difficile da digerire cavalcate rabbiose prive di assoli, sortite stoner (Sweet Amber è puro Vangelo Kyuss), stomp assassini, stacchi melodici e progressivi che sembra di trangugiare cemento a gran bocconi. Più lo ascoltavo e più era chiaro sarebbe diventato il mio album del cuore di quel gruppo di metallari che fino a poco prima non era poi davvero in cima alla lista. Con i suoi riff assassini, il songwriting oltre il limite dell’hardcore punk (del quale i nostri si sono sempre dichiarati amanti e il ritorno ai pennelli di Pushead non è un caso), i suoni osceni, reali, in cocciuta opposizione a tutto ciò che usciva dal mainstream dell’epoca e di quelle successive. Se tutti suonavano perfetti, i Metallica volevano e sceglievano scientemente la strada del lo-fi, della lordura finale e di una ferocia brutale e secca. Sembravano voler seppellire per sempre l’epoca da loro stessi creata negli ’80 con un colpo di pala ben assestato.

Ma così non è stato, come si evince già dal successore “Death Magnetic”, foriero di un ritorno agli antichi fasti trashari, forse spinti proprio da quel fandom di cui sopra, mi (s)piace pensare che non abbiano avuto sufficiente coraggio di proseguire sul nastro di asfalto rovente poggiato con i tre precedenti, odiati, dischi. Quest’anno è uscito “72 Seasons” (che trovo semplicemente triste e scialbo se non proprio vuoto come un’anfora finemente confezionata dal braccio destro di Rick Rubin Greg Fidelman, buona giusto per la sala d’attesa di un qualche vecchio medico nostalgico e accumulatore ma, soprattutto, campione di cattivo gusto) e per me la questione Metallica si è chiusa in via definitiva. Sono uno dei pochi e onestamente non m’interessa nemmeno così tanto, eppure mi ritrovo a pensare che questi ultimi venti dall’uscita di “St. Anger” siano stati anni di occasioni di crescita sprecate.

Stai a vedere che ora sono io a gridare “Traditori!”. Che brutta fine ho fatto.

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