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Back In Time

“Some Girls”: l’ultimo grande disco dei Rolling Stones, in attesa che Keith finisca in prigione “per un periodo più lungo”

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Le ragazze francesi vogliono Cartier, le ragazze italiane vogliono automobili
Le ragazze americane vogliono tutto ciò che al mondo puoi immaginare
Le ragazze inglesi sono così perbenino, non le sopporto al telefono
A volte sgancio il ricevitore, non voglio che chiamino mai
Le ragazze bianche sono abbastanza divertenti, a volte mi fanno impazzire
Le ragazze nere vogliono solo farsi scopare tutta la notte, solo che non ho tutta quella marmellata
Le ragazze cinesi sono così gentili, sono davvero stuzzicanti
Non sai mai bene cosa stiano cucinando, dentro quelle maniche di seta

Some Girls

Secondo il reverendo Jesse Jackson, discepolo di Martin Luther King e più volte candidato alla presidenza, questi erano testi “osceni” che insultavano la comunità afro-americana. Potete immaginare anche la reazione delle femministe dell’epoca. Al riguardo, Mick Jagger ebbe a dire: “Alla maggior parte delle ragazze a cui ho suonato la canzone, Some Girls piace. Loro pensano che sia divertente. Le mie amiche nere hanno proprio riso. E penso che sia molto lusinghiero per le ragazze cinesi, penso che vengano fuori meglio delle ragazze inglesi. Mi piacciono davvero un sacco le ragazze, e non credo che direi qualcosa di veramente brutto su nessuna di loro.” In ogni caso, avrebbe poi evitato dal vivo almeno di cantare il passaggio più controverso, quello sulle ragazze nere che “vogliono farsi scopare tutta la notte”. Più avanti, se volete il mio parere, il dibattito fu chiuso per sempre dal commento, come sempre definitivo, lasciato da Keith Richards, nella sua preziosa autobiografia, “Life”: “Bè, siamo stati in tour per tanti anni con molte ragazze nere, e ce ne sono varie che effettivamente sono così. Avrebbero comunque potuto essere ragazze gialle o bianche.”

Mi piace cominciare da qui, provocando, nel parlare di “Some Girls” per il suo 45emo compleanno. A beneficio di quanti pensino che i Rolling Stones già nel 1972 (con “Exile on Main St.”) avevano esaurito gli argomenti, musicali e non. O che addirittura siano sempre stati solamente una furba operazione di appropriazione culturale di musiche e atteggiamenti rubati agli afro-americani. Provateci oggi a scrivere dei versi così, se siete un’artista mainstream. La reazione che ne avreste, soprattutto in USA, non sarebbe certo il non-violento reverendo Jesse Jackson che ne va a parlare civilmente con il presidente dell’Atlantic Records, Ehmet Ertegun. Il quale Ertegun, altrettanto civilmente, se volete paraculamente ma comunque correttamente, si limitò a rispondere che capiva le preoccupazioni, ma lui non aveva nessun controllo sul prodotto artistico degli Stones. Possiamo intrattenere un lungo dibattito su chi avesse ragione: Jackson, le femministe, Jagger o Richards. Ma resta comunque un dato di fatto: gli Stones ancora una volta esercitavano il loro diritto alla libertà artistica fottendosene altamente delle critiche e delle censure, provenienti da destra, sinistra e centro. E questa è libertà pura, la libertà del rock’n roll più vero che non fa compromessi. Ancora nel 1978 i Sex Pistols e gli altri punk dell’epoca non avevano nulla da insegnare ai Rolling.

Era, appunto, il 9 giugno del 1978, quando “Some Girls” compare negli scaffali dei negozi di dischi. Tempi in cui il dominio delle grandi band di quello che ora chiamiamo Classic Rock veniva messo in discussione da due fenomeni in qualche modo opposti tra di loro, oltre che al Classic Rock stesso: la disco music che stava sbancando le classifiche e il punk-rock, più sottotraccia ma ancor più insidioso nel lungo periodo, come la storia ha dimostrato. “Some Girls” è la risposta dei Rolling Stones a questi attacchi. Una risposta da 6 milioni di dischi venduti solo negli USA: l’album più venduto della storia delle pietre rotolanti. Una risposta di ragazzi ormai trentenni, ricchi (erano superati i problemi finanziari di inizio decennio di cui abbiamo parlato ricordando Sticky Fingers”) e bianchi; certo. Quindi nulla a che vedere con Donna Summer o i Sex Pistols. Ma, a differenza dei Sex Pistols, loro la musica la sapevano suonare, gli strumenti li sapevano far funzionare.

Quando in “Some Girls” si cimentano dunque in una sorta di punk-rock (When the Whip Comes Down, Lies, Respectable, Shattered) non si può mancare di notare che le “pistole” probabilmente non ce la farebbero a suonare quel punk lì, con tutto quell’interplay chitarristico e con sezioni ritmiche così sofisticate. Quando si lanciano nella disco invece (Miss You) ne esce fuori un ibrido. Le loro radici blues si sentono eccome, altrimenti perché chiamare un armonicista come Sugar Blue a chiudere magistralmente il pezzo? E va anche detto che il pezzo non sarebbe quello che è se Bill Wyman non avesse adottato una linea di basso trovata per lui da Billy Preston, il mitico tastierista (nero, of course) comparso in tante incisioni degli Stones e dei Beatles. Non racconto nulla di nuovo, quando vi dico che Mick Jagger in quegli anni se la passava nelle piste dello Studio 54 di New York e fu lì che gli venne l’idea, fosse per amore della dance o per amore dei soldi poco importa. Il risultato è una traccia che funziona e cattura, anche se forse stanca all’ennesimo ascolto, mancandogli l’energia e l’autenticità che altri interpreti, di colore (of course), sapevano mettere nella dance di quegli anni.

Ma anche se tutti parlano di Miss You, “Some Girls” è molto di più, nel disco c’è ben altro. Musicalmente, è il primo disco che vede Ron Wood come membro a pieno titolo. Il che imprime una certa direzione al sound della band, per l’entusiasmo di Richards che si trovava (e 45 anni dopo ancora si trova) perfettamente a suo agio con il nuovo partner chitarristico. Impressionante la maestria dell’ex Faces nell’uso del pedal steel, essenziale in certi passaggi del disco (ad es. su Far Away Eyes). Ai due si aggiunge Jagger che suona la chitarra ritmica in 8 delle 10 tracce. Con 3 chitarre, gli Stones non erano mai stati più rock’n roll di così. Lo sentite forte e chiaro in Respectable che il frontman ha definito “un pezzo in cui il punk incontra Chuck Berry”. Sul vostro stereo avrete Ron a sinistra, Keith a destra, Mick al centro.

Jagger, in “Some Girls”, è pieno di idee ed in stato di grazia. Ricordiamo che sulla testa di Richards pendeva ancora la spada di Damocle del processo per droga in Canada che avrebbe potuto mandarlo in galera. Evento considerato probabile a più riprese ma che, al pari della sua morte, 45 anni dopo stiamo ancora aspettando che si avveri. Nell’ottobre 1978 Keith verrà prosciolto per un tecnicismo giuridico, 4 mesi dopo l’uscita dell’album. Nell’attesa tutti si chiedevano cosa ne sarebbe stato della band se fosse arrivata la condanna. “Se Keith andasse in galera uno o due mesi non ci scioglieremo” – ebbe a dire Jagger candidamente – Ma se fosse in prigione per un periodo più lungo, suppongo che non avremmo scelta”. Keith non era un Mick Taylor che si poteva sostituire, o un Bill Wyman che 15 anni dopo non sarebbe nemmeno stato sostituito a pieno titolo.

Ma per quanto essenziale, Keith non era al top in quel momento. Mick, sì. Pieno d’ispirazione e voglia di non soccombere di fronte alle mode del momento, anzi, di appropriarsene, ancora una volta, come fin dall’inizio la band aveva fatto con il blues elettrico che, peraltro, se non ci fossero stati loro (e altri ragazzi bianchi britannici come loro) non so quanti bianchi “occidentali” come me avrebbero saputo che esisteva. Ispirato, come abbiamo visto, anche nei testi. In When the Whip Comes Down racconta una storia così:

Mamma e papà me lo dissero
Ero pazzo a restare
Ero gay a New York
Solo un frocio a Los Angeles
Quindi ho messo da parte i soldi
E ho preso un aereo

Le cose però non vanno così bene nemmeno a New York e difatti la storia del ragazzo continua sulla cinquantatreesima strada di Manhattan dove, all’angolo con Third Avenue, a quei tempi i ragazzi gay si prostituivano:

Ovunque vada mi trattano allo stesso modo
Sì, sto percorrendo la cinquantatreesima strada
E mi hanno sputato in faccia
Sto imparando le basi
Sì, sto imparando un mestiere

Eppure, il nostro ragazzo riesce a vedere il lato positivo della situazione. Mick tira fuori qui il suo proverbiale cinismo:

E sto soddisfacendo un bisogno, sì
Sto tappando un buco
Mia madre è così contenta
Che non vivo del sussidio statale

Una storia newyorchese perfettamente realistica che avrebbe potuto scrivere e cantare Lou Reed. Un disco newyorchese dunque, anche se registrato a Parigi perché così conveniva alla casa discografica. “Ci sono un sacco di riferimenti a New York sull’album” – ha avuto modo di dire Jagger – “Anche se “Some Girls” non è un concept album, Dio ce ne scampi”. Ce ne sono un po’ dappertutto e trovano la loro apoteosi in Shattered:

Orgoglio e gioia e avidità e sesso
Questo è ciò che rende la nostra città la migliore
Orgoglio e gioia e sogni sporchi e sopravvivere ancora per strada (in frantumi)

Non ce ne sono in Respectable, dove Mick tratta invece della sua quasi ex moglie, Bianca, che all’epoca intratteneva una relazione con il figlio del Presidente Ford e paragona la sua parabola che l’ha portata ad essere “rispettabile” a quella degli Stones stessi.

Bene, ora siamo rispettati nella società
Non ci preoccupiamo delle cose che eravamo
Stiamo parlando di eroina con il presidente
Beh, è un problema, signore, ma non può essere piegato
Eh si!
Bene, ora sei un pilastro della società
Non ti preoccupi delle cose che eri una volta
Sei una ragazza del commercio di stracci, sei la regina del porno
Sei la persona più facile sul prato della Casa Bianca
Esci dalla mia vita, non tornare

Jagger aveva, malgrado le apparenze, il pieno controllo della situazione in quel momento difficile per Richards: persino della propria situazione domestica, nella quale stava entrando la nuova compagna, Jerry Hall. Alla quale dedicò Miss You, anche se al riguardo l’interessata fa spallucce e dichiara: “sono certa che ha detto lo stesso a un sacco di ragazze”.

E Keith? Per quanto ammaccato, è sempre Keith. Il suo momento arriva nella seconda parte dell’album, sul “lato B”. Prima Before They Make Run, che canta egli stesso: “quella canzone, che ho cantato su quel disco, era un urlo dal cuore”, dice il nostro. Gli ci vollero cinque giorni di lavoro in studio al nostro eroe per uscire soddisfatto, mettendo a dura prova la resistenza dei tecnici. Il riff iniziale è una stilettata al cuore, nella migliore tradizione dei suoi magici riff. Per il resto, come ho letto in giro: “Keith potrebbe non essere il miglior cantante al mondo, ma c’è sempre una nota di sincerità nella sua voce che lo rende terribilmente umano”.

Alcool, pillole e polveri, puoi scegliere la tua medicina
Bè, ecco un altro arrivederci a un altro buon amico

Quindi, dopo tutto quello che è stato detto e fatto
Devo muovermi finché è ancora divertente
Fammi camminare prima che mi facciano correre

…………………………..

Troverò la mia strada per il paradiso
Perché ho passato il mio tempo all’inferno
Non avevo un bell’aspetto, ma mi sentivo molto bene

È straziante sentirlo cantare in questo modo della morte del suo caro amico Gran Parsons, della sua dipendenza, della disintossicazione cui si era sottoposto in accordo con i giudici, della spada di Damocle del tribunale sulla sua testa, del suo passato all’inferno e della sua volontà di uscirne.

E poi c’è Beast of Burden, traccia che rientra nell’affollata categoria “capolavori del Maestro Keith Richards”. Quel riff di chitarra all’inizio ti fa venire i brividi lungo le gambe, poi entra alla grande Charlie Watts con uno stacco tra tom e rullante e il tutto sale lungo la spina dorsale e arriva ai peli delle braccia. Mick canta con il suo impareggiabile senso del ritmo e Ron condisce il tutto con i suoi lick squisiti alla steel, per non dire del bellissimo assolo a 1:48. Il ritmo è reggaeggiante, ma il groove è quello di un soul classico e rilassato. La sezione ritmica di Bill e Charlie da qui il meglio. La traccia è il modo di Keith per ringraziare Mick di avere tenuto dritta la barra del gruppo mentre lui usciva dalle sue dipendenze e dai suoi guai giudiziari. “Per questo ho scritto Beast of Burden, per lui, come mi rendo conto a posterioriha raccontato il chitarrista.

Tutta la tua malattia
Me la ciuccio io
Butta tutto su di me
Posso scrollarmelo di dosso

Tirando le somme, con “Some Girls” i Rolling Stones tornano a sfornare un gran disco, dopo il quartetto di uscite eccezionali tra il 1968 e il 1972 e il successivo lustro di stanca. La band torna a registrare un picco artistico e, malgrado la concorrenza di altri e nuovi generi, registra altresì il massimo picco commerciale. In quei mesi la band era in un tale stato di grazia che il disco avrebbe potuto tranquillamente essere un doppio all’altezza di “Exile on Main St.”. Già i successivi “Emotional Rescue” e “Tattoo You” ricomprendono outtakes da queste session. A ulteriore riprova, potete andarvi ad ascoltare la deluxe edition di “Some Girls” del 2011, di fatto un doppio album nella quale sono ricomprese altre 12 tracce fino ad allora inedite (se non in bootleg) e incomplete. Ora ricantate da Jagger e con qualche sovraincisione di Richards, si fa fatica a capire come molte di loro abbiano potuto rimanere escluse così a lungo. Visto il loro valore, deve avere evidentemente fatto premio la scelta commerciale di non uscire con un doppio. Ne cito solo (si fare per dire) 7: So Young (un rock’n roll molto rollinstoniano), Do You Think I Really Care (un’altro inno a New York City con Ron Wood che ci delizia allo steel), No Spare Parts (una ballad strappabudella), Don’t Be A Stranger (una filastrocca country western), We Had It All (ballatona nostalgica coverizzata da Keith con quella sua voce straziante di cui sopra), Tallahassee Lassie (un rockabilly a cui Mick consegna anima e ugola). Ma sopra a tutte, Keep Up Blues: un intensissimo blues elettrico, allo stile di Chicago, con tanto di armonica (se Jagger stesso o Sugar Blue non è dato sapere) e Ron Wood che, di nuovo, supera se stesso allo steel.

Che lo si preferisca singolo o doppio, resta da chiedersi se “Some Girls” sia stato forse “l’ultimo dei grandi dischi dei Rolling Stones”. Per rispondere alla domanda bisognerebbe, in un’altra sede, fare un’analisi completa di una epopea ormai sessantennale e che a quanto pare, a meno che Keith Richards “dovesse terminare in prigione per un periodo più lungo”, non terminerà mai. Forse diventa allora più utile e urgente cominciare a chiedersi che tipo di mondo vogliamo lasciare a Keith quando noi non ci saremo più. E sto solo raccogliendo un grido che circola da tempo in rete.

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