L’epoca degli album divisivi è finita. Meglio ancora: l’epoca degli album che fanno discutere per più un tempo che va dal quarto d’ora ai tre mesi e che restano impressi tanto a detrattori quanto agli adoratori è finita. Sepolta. Andata. Chi l’ha fatta fuori? I social? No. Lo streaming illimitato (ma se paghi una quotina non ti facciamo sentire la pubblicità delle poltrone o il lancio di quel cantante che sembra quello e quell’altro là ma che se poi si devono pagare gli artisti in sé, no dai)? In parte sì, ma ci torneremo. Siamo stati noi. Si sa, mica come l’Uomo Ragno che siamo ancora qui a chiederci chi cazzo sia stato dopo 31 anni.
Iperbole? Esagerazione? Boomer (no, sono nato nel 1986)? Può anche darsi, ma non sono tanti gli album che hanno lasciato un segno al proprio passaggio con l’avvento degli anni 10 del nuovo millennio sino ad oggi e, se l’hanno fatto, si fatica a parlarne, perché c’è sempre un argomento idiota che scalza l’interesse anche di chi dovrebbe ignorarlo (qualcuno ha detto Fedez e quell’altro tizio che non ho idea di chi sia?), oppure siamo distratti o troppo attratti da playlist create appositamente da un algoritmo per venire incontro ai tuoi gusti. Sempre ammesso che siano quelli. Forse l’algoritmo sa, l’IA ci conosce ma, come in quella pubblicità di un’auto, forse dovremmo dire “No!” e ricominciare a parlare e discutere, anche a dire delle grandissime stronzate.
Anche nelle sacche di resistenza proprie di generi che mainstream (sempre ammesso che di mainstream si possa ancora parlare) si è persa un po’ di verve. Il black metal è un buon esempio. “Sunbather” è l’esempio perfetto. Quando uscì dieci anni or sono fece detonare tutto e tutti. Se fino a quel momento i Deafheaven avevano sì già all’attivo qualcosa di bello e, se non nuovissimo, che almeno si discostava dal resto, con il loro secondo full length hanno scoperto le carte, mostrando la mano vincente a diverse generazioni di sbraitatori satanici. La copertina rosa e il lettering dell’album il primo colpo al nero cuore di tutti coloro che fino a quel momento si sono fregiati del titolo di “trve”, mutuandolo dai propri eroi dal viso pittato per terrorizzare (oggi anche la paura non ha più un volto). Come puoi dichiararti “black metal” se fai un disco rosa? Sacrilegio! Fa ridere, se pensiamo a questo genere come una “religione” – ed è evidente che questi figuri lo facessero e facciano ancora – quando proprio il dogma era il Nemico. Tutto tranne che veramente iconoclasti si presero un coccolone di quelli d’antan. Diedero di matto.
Quando lo ascoltarono il malessere aumentò: cos’erano quelle parti melodiche così “sdolcinate”? Dov’è che si parla di Satana? Di antichi riti pagani? Da nessuna parte. Poi sono americani. Come si permettono gli yankee (i ragazzi però si sono formati a San Francisco, quindi non molto yankee, però è la città degli hippie per antonomasia, ma che siamo matti?). George Clarke, colui che non scrive di diavoli degli inferi ma che grida come ne avesse un’intera schiera in corpo, ha due anni meno di me (fate i vostri calcoli) e le influenze che sciorina sono quelle che quelli della mia generazione si tengono strette, quelle più ovvie i My Bloody Valentine, gli Slowdive (quando si riunirono al Primavera Sound Clarke e il chitarrista Kerry McCoy erano a fianco a me in mezzo al pubblico, rapiti, quasi in lacrime, perché sia per me che per loro era un sogno che si avverava), pure gli Emperor ma anche Bush, Goo Goo Dolls e Cranberries? Come? Sì, lo disse proprio lui ed è evidente da come quei gruppi erano in grado di costruire melodie diventate immortali, di come trattavano i sentimenti. Perché “Sunbather” è un disco che parla di essere giovani, del dolore che provoca fare parte di una generazione completamente ignorata (e la nostra lo è stata, sia in America che qui, nel Vecchio Mondo, pestata a sangue nelle manifestazioni), non è politico e Clarke stesso lo chiarifica, ma lo abbiamo adottato come tale, un grido di disperazione senza fine.
Attorno alle grida sbocciano melodie grandiose, perché la grandeur oggi pare una bestemmia, ma dieci anni fa era il mezzo utile per far esplodere un disco, renderlo tanto emozionante da incastonarlo nelle pieghe di un tempo che di pieghe ne aveva sempre meno, troppo lineare, troppo appiattito, senza scossoni. Ma anche questa è una conseguenza di quel che avvenne col capitolare del secolo scorso: se ti ergi e ti massacrano, meglio stare attenti. E invece no, la musica deve ergersi, e quella di “Sunbather” è un gigante che scintilla e sbuca dalla nebbia, prende il cuore e lo divora ma non lo macella, lo rinnova trasformandolo. Per me è la title track a fare la differenza. Quando l’elettricità non grida, nella parte centrale, e le chitarre si fanno delicate costruendo un trampolino per l’inferno in terra:
It’s 5 AM…and my heart flourishes at each passing moment. Always and forever
Questo passaggio esplode fortissimo, lo senti da chilometri e chilometri di distanza. È enorme, più struggente di qualsiasi lamento black uscito fino a quel momento, più intenso del post-rock più viscerale. È una liberazione. Quando lo ascolto mando indietro e ripeto. Indietro e ripeto. Always and forever.
Così faccio col disco, l’ultimo davvero divisivo, ma non l’ultimo bello, quello no, per fortuna. C’è ancora tanto da sentire. Ancora tanto di cui parlare.