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“Gold Against The Soul”, la meravigliosa transizione dei Manic Street Preachers

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Prendere la prima parte della produzione discografica dei Manic Street Preachers – dall’esordio di “Generation Terroristst” a “Everything Must Go” – è un po’ come comporre un mosaico. Gli anni che vanno dal 1992 al 1996 rappresentano un lustro capace di incubare quattro dischi uno meglio dell’altro, un cofanetto zeppo di pietre preziose che aumentano di valore col passare del tempo. I Manics erano nati artisticamente a Blackwood, una cittadina di circa 8 mila anime appartenente al distretto del Caerphilly, profondo sud del Galles, e già dagli esordi davanti a pochi intimi avevano dimostrato che non si trattava della solita tribute band punk-nostalgica di fine anni ’70.

Il trio formato dalla voce e chitarra di James Dean Bradfield, dalle bacchette di Sean Moore e dal basso di Nicky Wire – ai quali da subito si aggiunge l’altra chitarra di Richey Edwards – viene fuori della cosiddetta scena Cool Cymru, appellativo che identifica l’orgoglio gallese e il suo affrancamento rispetto alla più nota Cool Britannia, a sua volta nucleo centrale della british invasion dei primi anni ’90 che sarà culla musicale del Britpop. Sbaglia, quindi, chi affianca i Manics al filone che comprende i vari Blur, Oasis, Pulp e figliocci postumi: Bradfield e soci scrivono una storia a parte, pionieri di un movimento che anzi attira altri compatrioti più o meno contemporanei, dagli  Stereophonics ai Super Furry Animals, passando per i Catatonia.

Photo: Kevin Cummins/Getty Images

I Manics sono figli dell’epoca punk, si esprimono con una musica e un linguaggio proveniente dagli anni ’70 e non può del resto essere altrimenti. Il loro livore deriva da due fattori: in primo luogo, il Galles a fine anni ’80 vive la fase più critica di un declino economico iniziato un decennio prima e dovuto in gran parte alle negligenti politiche dettate da Londra, su tutte la chiusura quasi definitiva del South Wales Coalfield, un’area di grandi giacimenti minerari che ne rappresentava il maggior indotto; in subordine, alla scena punk londinese, così incendiaria e fervente dal punto di vista culturale, non si era affiancata una generazione di giovani gallesi in grado di fare altrettanto. I critici musicali quasi deridevano gli atteggiamenti paciosi tenuti da chi invece avrebbe dovuto guidare la rivolta, gente come Van Morrison, Shirley Bassey e Tom Jones.

Da questo punto di vista, “Generation Terroristst” del 1992 è una bomba a mano, un esplosivo potentissimo lanciato con estrema violenza da chi – come i Manic Street Preachers – non ne può più di vivere in condizioni di indigenza, una povertà latente indotta dalla boria dei sudditi di Sua Maestà. I testi sono intrisi di polemica politica, una versione aggiornata dei Clash, al contempo in allineamento perfetto rispetto ai diversi impulsi provenienti dagli Stati Uniti, scagliati da questa parte dell’Oceano dai californiani Rage Against The Maxhine e dai newyorkesi Public Enemy.

Il secondo capitolo della storia la band di Blackwood lo scrive poco più di un anno dopo. Da subito i quattro si rendono conto che non possono partorire un esordio-bis: decidono quindi di rivoluzionare i suoni pur restando fedeli a se stessi. Le idee sono talmente chiare che i lavori per l’incisione di “Gold Against The Soul” durano meno di un mese, al termine del quale sono tutti – compreso il produttore Dave Eringa – soddisfatti del prodotto finito. Un prodotto diverso dal precedente, detto senza per forza sottintendere un’accezione positiva o negativa del termine. Ciò è evidente fin dalla pubblicazione di From Dispair to Where, il primo singolo, che fa il paio con l’iniziale Sleepflower nella trasparenza di un certo influsso proveniente dalla West Coast, che in quegli anni oscilla tra grunge, AOR e le nuove forme di glam rock.

Poi ecco un punto di svolta, un progressivo ammorbidimento di quelle chitarre gracchianti e quelle urla lancinanti: La Tristesse Durera (Scream to a Sigh) rappresenta il passaggio dai giovani Manics a quelli che diverranno in futuro. E’ un lampo, una premonizione bruscamente interrotta dai riff e dal basso che pompa in Yourself. L’intensa Life Becoming a Landslide fa da apripista a Drug Drug Druggy, un pezzo che sembra uscito da una sessione in studio degli Alice in Chains. Poi di nuovo quell’onda sinusoide che conduce verso i sentieri melodici di Roses In The Hospital, ma anche stavolta l’inganno è servito perché dietro l’angolo in agguato c’è Nostalgic Pushead, altra curva adrenalinica, prodromica rispetto alla devastazione di Symphony of Tourette. La chiusura delle frenetiche danze, dopo quasi tre quarti d’ora vissuti quasi tutti a velocità folle, è affidata al lungo sospiro della title track.

Fin dagli esordi, i Manic Street Preachers hanno attirato tanta curiosità su di sé, complici la musica – di ottima fattura, sempre – e i temi affrontati, che spaziano dalla politica all’attualità, dal pensiero critico sul mondo finanche all’amore, raccontato da una personalissima angolatura. Dal canto suo, “Gold Against The Soul” è una meravigliosa transizione, spesso (e a torto) relegata in secondo piano rispetto ai due successivi capolavori “The Holy Bible” e “Everything Must Go”. Musicalmente è multiforme, variegato, un insieme di cose messe lì tutte insieme, che apparentemente possono dare l’idea di un collettivo che non sa bene quale strada intraprendere, ma che col senno di poi chiarisce definitivamente quanto la band avesse le idee chiare sul suo immediato futuro.

Ma l’elemento cardine di “Gold Against The Soul” è la personalizzazione dei testi, una caratteristica peculiare di Bradfield e soci, che li rende efficaci come una band punk e al tempo stesso romantici come quattro songwriters. Nel disco non si parla più di guerra, ma delle ferite che essa ha arrecato a un militare; non capitalismo, ma povertà alla quale sono condannati i singoli individui appartenenti alla working class. Al di là delle strade che prenderà la loro musica, dal post punk più aggressivo al rock, fino ad arrivare alle hit radio-oriented dei giorni nostri, sarà l’incarnazione lirica il loro tratto distintivo. Un romanticismo che ce li fa amare da 30 anni, ininterrottamente.

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