I Little Pieces of Marmelade sono una strana creatura. Un anfibio nomade post-tutto, che scavalla allegramente trend e revival e che (quasi) più di ogni altra band nella storia italiana recente si è trovata a dover gestire il proprio futuro in modalità istantanea e con addosso gli occhi di tutto il paese.
I nostri sono infatti stati protagonisti di una stagione assurda: triangolati per (dis)grazia ricevuta e trainati fieramente in prima serata sul palco di un noto programma televisivo, ma rimasti al contempo lucidi nel modellare la loro stessa immagine trasmessa (riflessa?) con una forza centrifuga straordinaria.
Quello che mi colpisce dei Little Pieces of Marmelade è la potenza della loro stessa ragion d’essere: i LPOM sono nati per suonare e questa urgenza, così banale e sacrale, si respira, anzi si inala con prepotenza, sia su disco che dal vivo.Sulla prestazione live c’è poco da discutere: i ragazzi sono dei professionisti adulti.
Non perdono un colpo, costruiscono una scaletta fresca e dinamica che tiene conto della narrazione complessiva della performance e permette di vivere il concerto come uno scambio articolato e profondo e, cosa non scontata, sul palco danno e si danno (e si dannano) dal primo all’ultimo minuto.
I LPOM sono prima di tutto di grande impatto fisico. Grazie alla formazione scarnificata costruiscono un setting bipolare della visione, che permette di far rimbalzare lo sguardo fra i due vertici di attrazione e fruire della loro sinergia. Questo modello sonoro e strutturale fluisce nel loro primo disco in italiano: “Ologenesi” (qui la nostra recensione), che è innanzitutto un disco di bellissime canzoni.
Un viaggio dissolto all’interno di una fotografia, che fluttua negli umori (talvolta sgradevoli, come la vita) e nei suoni che impastano e stendono: gli anni 90, i 2000, John Frusciante, i Pixies, gli Sleep, gli Zu i Verdena (e chissà cos’altro) fino a sfilacciarli e romperli, per creare una nuova texture con la quale e sulla quale disegnare, incidere, riscrivere, rovinare, godere. È un disco che arriva diretto e diritto, senza masturbazioni né malizie.
Credo che la cosa che rende speciali i LPOM sia il senso di vita che brulica in ogni distorsione, in ogni sovraincisione, in tutte quelle sillabe che sganciate dal significato si fanno funzione sonora.
“Ologenesi” è una perla (dell’Adriatico) e Canzone 10 è una Akoya fra le perle. Non siate pigri, ascoltatelo.
Noi intanto li abbiamo incontrati.
Ciao ragazzi e benvenuti sulle pagine di Impatto Sonoro! Cominciamo dal principio: chi sono i Little Pieces of Marmelade? Da dove vengono? Da che contesto emergono?
I Little Pieces of Marmelade sono un band di Filottrano e non di Roma, come tutti credono. Emergono dalla provincia di Ancona, dove le cose non esistono e quindi devi inventartele e coltivarle da solo con tutti i dubbi e le frustrazioni che ne derivano.
Il vostro habitat geoculturale di partenza (nello specifico le Marche centrali) quanto ha influito sul vostro sound e più in generale sulla vostra formazione?
Quando abbiamo iniziato era pieno di gruppi punk rock, combat e folk, qui a Filottrano siamo tutti figli dei The Gang, anche se noi abbiamo cercato sin da subito un’altra dimensione sonora. Ma sono stati proprio loro e i Filottrano City Rockers a portarci sui primi palchi a suonare i nostri inediti. Avevamo più o meno 14 anni.
“Ologenesi” è il vostro secondo disco, ma indubbiamente il primo con una struttura da full lenght. Siete soddisfatti della vostra creatura?
Si, “Ologenesi” è il nostro primo disco vero e proprio in italiano, siamo soddisfatti del lavoro che abbiamo fatto io e Dani sul disco,ci siamo sentiti liberi al massimo in tutto e per tutto ed era proprio quello che volevamo fare e trasmettere.
Una cosa che mi stimola molto di “Ologenesi” è la percezione del totale controllo della situazione da parte vostra, sembra che ogni singola sbavatura risponda con rigore a come è stata voluta e pensata. Il processo di scrittura è stato liscio o tortuoso?
Si esatto, il disco è pieno di sbavature volute, non volevamo un disco super rifinito ed impacchettato come tutto quello che sentiamo oggi.
“Ologenesi” è un fotografia esatta di noi stessi in quel momento, senza filtri.
Abbiamo voluto registrarlo da soli nel nostro studio persi nel nostro mondo, per avere il pieno controllo del suono, dell’intenzione e della produzione, ed evitare a tutti i costi il “sound da studio”. Soprattutto per le batterie, registrate al massimo con 3 microfoni e le chitarre tutte in linea senza usare amplificatori. Volevamo esasperare ed esagerare il suono marcio e puro dei nostri strumenti. È stato un processo liscio e tortuoso allo stesso tempo, tortuoso forse per il fatto di lavorare per la prima volta ai testi in italiano.
Trovo che il nucleo di “Ologenesi” sia un senso quasi sacro di nervosismo che sgorga e fluisce furioso, ma divertito. La tensione che permea il disco vi appartiene come persone o si manifesta solo attraverso la musica?
Tutta la tensione che senti in Ologenesi la stavamo vivendo noi in quel periodo, non ci sentivamo al posto giusto, forse. Volevamo subito toglierci la patina malata del talent e dimostrare a tutti che si può fare musica come ci pare e piace.
Come mai l’utero come protagonista della vostra iconografia?
L’utero era uscito fuori mentre ascoltavamo i mix dei brani, un disegno che avevo fatto tra gli appunti. L’ho ridisegnato in varie maniere perché mi evoca qualcosa di sexy e maligno allo stesso tempo, un po’ utero un po’ Lucifero appunto, alienante. Ci siamo subito innamorati e sentiti legati a lui e lo abbiamo usato ovunque.
Il 2020 è stato l’anno che ha cambiato la vostra vita. In televisione a suonare punk col mondo intero inchiodato al divano. Dopo 3 anni quali sono i vostri pensieri riguardo a questa follia?
Si il 2020 ha cambiato nettamente le cose per noi, abbiamo sfruttato quel momento televisivo al meglio, era l’unico mezzo per noi per far ascoltare a tutti la nostra musica. Prima della TV avevamo un disco da mandare in giro alle etichette e non lo voleva nessuno. Dopo 3 anni a ripensarci è ancora tutto assurdo e incredibile, per noi la cosa fondamentale è fare musica nella libertà più totale e senza adottare compromessi con niente. Dopo quell’esperienza ci sentiamo grati di poterlo ancora fare.
Dopo un periodo di concerti trionfali siete epicamente tornati a frequentare palchi underground. Quale pensate sia la dimensione ideale per l’esperienza LPOM?
Devo dire che quest’ultimo giro di concerti invernali e primaverili in locali più intimi sono stati la situazione perfetta per “Olognenesi“, sentivamo di più il contatto col pubblico ed era quello di cui avevamo bisogno.
Ci consigliate degli artisti italiani (anche poco noti) che secondo voi meritano una menzione d’onore?
Tra i progetti che più ammiriamo in Italia ti posso citare Gary Alien, viene sempre un periodo della mia vita in cui non posso fare a meno di ascoltarlo.
Ovviamente gli Zu ,che secondo noi sono la cosa migliore che ci sia capitata, i leggendari Uzeda….Oppure Exhibith, Placenta ,Generic Animal.
Com’è stato svegliarsi un giorno e scoprire che Billy Corgan vi aveva ricondiviso su Instagram?
Non ci sembrava vero che Billy Corgan avesse visto e condiviso la nostra esibizione, é stato un sogno ad occhi aperti! E pensare che noi non volevamo nemmeno fare quel brano in TV…