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“A Saucerful of Secrets”, ovvero di come nacquero i Pink Floyd del futuro

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Fino alla prima metà degli anni ’60, l’Europa intera è stata irrimediabilmente influenzata dalle mode americane, laddove la sineddoche è ovviamente riferita ai soli Stati Uniti e non all’intero Nuovo continente. Il fenomeno Beatles – insieme ad altri collaterali come gli Shadows di Cliff Richards e i Kinks di Sir Ray Davies – contribuirono a ribaltare del tutto la scena, tanto da far scrivere e parlare di una vera e propria British invasion: per la prima volta gli americani si adeguavano a qualcosa proveniente da questa parte dell’Atlantico, segnatamente dall’isola britannica.

Nel corso del 1966, a Londra, due gruppi di studenti si fusero e formarono una band. Da un lato c’erano Syd Barrett e David Gilmour, chitarristi e appassionati di folk, dall’altro gli studenti di architettura Nick Mason e Richard Wright, rispettivamente un batterista e un tastierista di impostazione classica. Un amico in comune, il bassista Roger Waters, riunisce tutti intorno a un tavolo e pianifica la nascita dei Pink Floyd, nome scelto prendendo spunto da Pink Anderson e Floyd Council, due bluesmen americani. Il più giovane di tutti è anche il leader designato: Syd è un portento, un artista multiforme che spazia dalla poesia alla prosa, dalla pittura alla musica. Canta, suona la chitarra e compone testi Syd, e lo fa mescolando dolcezza e inquietudine, melodia e rumore. 

I primi singoli sono già un’enciclopedia di rock contemporaneo. I neonati Pink Floyd, che di base traevano ispirazione dalla psichedelìa americana quando ancora nessuno la chiamava così, prendono pezzi di Velvet Underground, Red Crayola, Jefferson Airplane e Grateful Dead e creano qualcosa di nuovo, nella musica e nel linguaggio. Laddove gli americani, pur generando una fenomenologia artistica e sociale totalizzante, si erano proposti al mondo in modo disarticolato alternando acid rock, blues e garage, i Pink Floyd erano riusciti in poco tempo a racchiudere tutto in un unico involucro, generando il moderno concetto di psichedelìa. “The Piper at the Gates of Down”, uscito ad agosto del 1967 nel bel mezzo della summer of love californiana, (ri)scrive le regole gioco: è un’esplosione nucleare, una nuvola a fungo scandita dal ritmo di Nick, dai tappeti sonori di Rick e dalle cesellature di Roger. Il limite è il cielo e sopra la volta celeste c’è Syd, che con la sua chitarra e la sua voce assume ogni volta sembianze diverse. Da menestrello pazzo (Flaming) a cantore degli inferi (Lucifer Sam), passando finanche all’uomo dello spazio narrato in Astronomy Domine e Interstellar Overdrive.

Prima che ci arrivino gli altri, chiunque essi siano, Syd è già oltre. E’ una spanna avanti alle angosce di Lou Reed, alla cosmicità di David Bowie in versione Ziggy Stardust, all’introspezione di Jim Morrison. E’ in anticipo sui tempi sospesi tra realtà e finzione, preconizzando il dominio astronomico solo in seguito messo in scena da Kubrick (dicembre 1968) e visto in tv ad opera dell’equipaggio dell’Apollo 11 (luglio 1969). Un disco così imponente, enorme, fondamentale e aggiungete voi un’altra decina di accrescitivi, fa venir voglia di farne subito un altro.

È un momento magico per i Floyd. Dall’underground londinese sono volati in orbita, ormai li conoscono ai quattro angoli della terra. Partecipare a un loro concerto significa vivere esperienze lisergiche, alimentate da spettacolari giochi di luce e, ovviamente, quintali di sostanze allucinogene. In quelle sostanze Syd si era tuffato con tutto se stesso, convinto dalla corrente di pensiero proveniente da oltreoceano secondo cui per superare le porte della percezione bisognasse fare uso di Lsd, mescalina e similari.  Ecco quindi che alla vigilia delle registrazioni del nuovo disco, con tanto fieno in cascina e un’ossatura già presente, il genio si eclissa. Dopo un tira e molla durato mesi, la band decide di congedare Syd nella primavera del ’68, non prima di aver chiesto aiuto al nuovo co-leader in pectore, quel David Gilmour contiguo al progetto Pink Floyd e che di Syd era stato mentore musicale e istruttore di chitarra. 

Il punto di rottura rispetto al recente passato si intitola “A Saucerful Of Secrets”, una discontinuità che risalta già dai crediti di produzione. Se, infatti, “The Piper” girava tutto intorno alle idee di Syd, qui ci troviamo per forza di cose di fronte a un lavoro corale. La sperimentazione è comunque spinta al suo massimo, lo si nota in pezzi come l’iniziale Let There More Light, mentre in Remember Day si ritrova quel gusto primordiale di prendere una perfetta radio-hit dell’epoca e incupirla fino all’inverosimile. Parimenti, le orbite cosmiche sono calcate in Set the Control for the Heart of the Sun, pezzo in un unico accordo che sprigiona una tensione mai lenita e che sfocia nella sarcastica cattiveria di Corporal Clegg.

Il lato B – ma è un discorso allargabile a tutto il disco – è dominato dalla suite che dona il titolo all’album. A Saucerful of Secrets è un’autentica masterclass di psichedelìa. Suoni cacofonici, sovrapposti, confusionari, senza un ordine apparente: spararsi i primi quattro minuti in cuffia dà la sensazione di aver assunto sostante psicotrope ed essere immediatamente caduti in un sonno allucinato e profondo. Non c’è via di scampo, la batteria nel frattempo sopraggiunta ha il potere di conferire una tensione ancora maggiore alla scena, dominata da suoni elettronici distorti fino allo spasimo e da un pianoforte impazzito. Poi il silenzio, un vuoto che implode su se stesso e dal quale sbuca un organo dissonante, cui fanno da eco rumori di sottofondo: chiudendo gli occhi la sembra di assistere a un requiem tenuto in uno sperduto ossario di campagna. Siamo lontani anni luce dalla swinging London in voga quegli anni: gli ultimi minuti sono accompagnati da cori al contempo angosciati e celestiali, un dolce tormento che conduce al riposo eterno.

Con See Saw si torna tutto d’un colpo alle battute iniziali del disco, che però è il preludio alla fine. Che non è solo la conclusione del disco: Jugband Blues è il testamento di Syd, il suo addio alla band prima di intraprendere la strada senza ritorno che lo porterà ben presto in un’altra dimensione, la sua, il pianeta del diamante pazzo narrato nei dischi successivi. “Saucerful” è quindi l’embrione dei nuovi Pink Floyd, il primo passo verso la leggenda conosciuta in tutto il mondo. Perché dopo alcuni tentativi con le colonne sonore (“More” e “Zabriskie Point”) e dopo un ambizioso album dal vivo (“Ummagumma”), l’anima dei Pink Floyd verrà definitivamente incarnata dal genio di Roger Waters e dalla melodia di David Gilmour, dai sentieri tracciati da Richard Wright e dai tempi scanditi da Nick Mason. Non più, quindi, una divinità e i suoi adepti, bensì quattro menti diverse che danno vita ad un unico suono. 

In rapida sequenza verranno fuori “Atom Heart Mother” e “Meddle”, al quale seguirà “The Dark Side of the Moon”, il padre, il figlio e lo spirito santo (scusate la blasfemia) della musica rock di ogni tempo. 

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