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Retrospettive

The Melvins e l’arte dell’escapismo: da 40 anni in fuga dalla prigione della normalità

(c) Chris Casella

Red Ronnie: “Ho chiesto a una ragazza che tipo di musica potrebbe essere questa [indica un cd] e lei mi ha detto, guardando la copertina: Una musica molto dolce.

King Buzzo: “Devo dire che sono d’accordo. Musica molto dolce.

Red Ronnie: “Ah, è musica molto dolce, quella che suonate è musica molto dolce?

King Buzzo: “Beh, a me piace.

Lo scambio più imbarazzante della televisione italiana che incontra la musica alternativa mondiale secondo solo a Mike Bongiorno che chiede a Martin L. Gore se sia un maschio o una femmina – complice un outfit che l’impomatato re retrogrado dei quiz non riusciva a comprendere né a codificare. Ansaloni, a differenza di Michael, i Melvins li ha voluti far atterrare come marziani nel salotto di Roxy Bar non per obblighi televisivi, ma perché li voleva lì, gli antesignani del grunge (così li chiama, dicendo “grung”), voleva che il grande pubblico capisse cosa capitava al di là dello scintillio dei riflettori del pop italiano, del liscio, della musica da classifica usa e getta (allora come ora, altro che “prima era meglio!”). Voleva che si scontrassero con un muro di suono allucinante. I Melvins lo accontentarono suonando una versione spaccaossa della già spezzatibie Revolve, che poi è uno dei singoli di “Stoner Witch” (la cui copertina consta di un cigno circondato da fiori, molto dolce, certo), un singolo di un disco che esce su major violento da far spavento.

Invertendo la tendenza dell’epoca (anno di grazia 1994) tale per cui una band heavy che finiva su major doveva portare ai padroni “musica molto dolce”, almeno un pezzo dai, che lo mandiamo alle radio, a MTV, roba che puoi fischiettare. Qui non si fischietta, lo dicono chiaro, i Melvins, e la Atlantic accetta probabilmente obtorto collo, ma fa bene. Non ci sono compromessi in casa Osborne. Non ci sono mai stati e non ci saranno mai. Dal 1983 al 2023 Roger e i suoi allegri compagni fanno a pezzi tutto ciò cui passano attraverso, senza mai mollare le redini di una macchina che più obliqua e pesante non si potrebbe. Osborne, diventato poi il Re Buzzo, non è uno di quei personaggi che compaiono a destra e a manca all’interno delle miriadi di articoli sul “grung” che escono da una trentina d’anni a questa parte e, se succede spesso è una figura marginale ed è giusto così. Il culto dei Melvins esiste ed esisterà sempre a prescindere da tutta la scena di Seattle e limitrofi ed è anche grazie a questa “esclusione” che il culto è vivo più che mai. Lo stesso Buzz ha sottolineato che è anche grazie al fatto che i Melvins non hanno mai scritto una hit che sono ancora in giro e tanto influenti. C’è da dargli ragione. Sotto il loro palco non troverete mai un idiota pronto a chiedere pezzi del passato, eccezion fatta per quella volta in cui, a Venaria Reale con la Fantômas Melvins Big Band, un tizio si mise a chiedere a gran voce i pezzi dei Faith No More incontrando il disappunto di un Mike Patton sboccatissimo e decisamente poco propenso ad accontentare chissà chi. Anche in questo caso i Melvins non c’entravano nulla. Nessuno vuole una loro hit. Libidine.

Sin da inizio carriera questa creatura a tre teste, due delle quali cambieranno in fretta per poi tramutarsi in un kaiju bifronte grazie all’arrivo di Dale Crover, non ha mai fatto sconti, prendendo ogni singola influenza e cacciandola dentro al calderone, che si trattasse di Hendrix, dei Kiss (dei quali i Nostri sono ghiotti fan, bastino la cover di Goin’ Blind e le copertine dei dischi “nominali” che facevano il verso o meglio tributavano quelli dei loro eroi mascherati), di Ted Nugent o i Ramones e tutta la scena hardcore punk statunitense poco importa. Tutti gli ingredienti erano buoni per la ricetta che i Melvins avevano in mente di riversare sul mondo intero partendo da bettole sordide che mai hanno abbandonato, perché questa non è una storia di grandi palchi, è una storia di palchi sudati e folli, e neppure sempre a loro favore, come quando andarono in tour coi Mr. Bungle e il pubblico amante dei Faith No More, già disorientato da un Patton tutto tranne che accomodante e pop, tentò di farne brandelli fischiandoli dal momento zero all’ultima nota suonata facendo inferocire il frontman meno tranquillo mai approdato su MTV il quale decise: a) di donare 50 minuti di rumore bianco al pubblico in adorazione quindi non una nota suonata, non un brano, un cazzo di niente e b) di farsi un clisertone live e spruzzare il risultato su quegli ingrati. Da quel momento in poi l’amicizia tra Melvins e Mike Patton si è trasformata in un sodalizio discografico che dura dal 1999, tanti sono gli anni che la Ipecac Recordings ne stampa ogni singolo album, ad eccezione di qualcosina che ancora viene pubblicata dagli amici di sempre della Amphetamine Reptile.

La discografia dei Melvins, infatti, è un ordigno difficile da controllare. Tutto ciò che immaginate di voler sentire inserito in mezzo a ritmiche di cemento armato e chitarre elettriche bulldozer lo troverete. Gli inizi più hardcore e veloci del cosiddetto EP “Six Songs” e “Gluey Porch Traitment” erano già insozzati da un amore sabbathiano mai estintosi, e già era chiaro che non ci sarebbe stato posto per questi luridi individui in mezzo ai futuri “poster boy” (per citare Buzz, anche se si riferiva al summenzionato Patton) di MTV, amici sì, amati tanto, tributati quando scomparsi, ma pur sempre distanti anni luce. Da una parte gli stadi, dall’altra il reparto psichiatria. Ogni strada incrociata è un posto su un album, coi Tool a fare capolino nelle distruzioni progressive e le folli cover di “The Crybaby” (la moglie di Buzz, Mackie, rende il favore lavorando all’artwork di “Lateralus”), parte di una trilogia altrettanto demolente che comprende “The Maggot” e “The Bootlicker”, il signore dell’industrial J.G. Thirlwell (sempre lì) e quello del noise Lustmord (sullo strapesante “Pigs Of The Roman Empire”), odi d’amore ai Butthole Surfers con tanto di Jeff Pinkus su “Pinkus Abortion Technician”, fratellino minore di quel capolavoro della band texana, scorribande punkatomiche con sua maestà Jello Biafra per ben due uscite, una più brutale dell’altra.

(c) Bob Hannam

E ancora progetti acustici completamente fuori di testa, con le 52 stralunate rielaborazioni “unplugged” di “Five Legged Dogs”, a dimostrare che togliere l’elettricità non vuol dire succhiare via il demone dal suo ospite, jazz schiantato sul palo della luce (“Freak Puke”, colpevole tanto quanto loro il sodale Trevor Dunn che già su “A Live History of Gluttony and Lust – Houdini Live” fece furore e malessere), formazioni doppie capaci di sfornare roba tellurica e strapotente (“(A) Senile Animal”, primo con la formidabile line-up assieme ai carri armati sludge Big Business) e dischi sgonfi come SuperTele abbandonati nel cortile di casa dal 1983 (“Nude with Boots”) o dischi dedicati a gente totalmente fuori fase e mai dimenticata (esce in questi giorni, sempre su Amphetamine Reptile, una sorta di tribute album ai Throbbing Gristle).

Ci sono poi gli album “classici”, “Stag”, “Bullhead”, “Ozma” (da cui i Verdena trassero una coverona di Creepy Smell prima ancora di dimostrare tutto l’amore per Buzz e Dale come fecero su “Requiem”), “Lysol”, “Houdini”, “Stoner Witch”, e qui la storia è nota: una storia fatta di fango e lordura, testi inconcepibili, ritmi tanto lenti da essere punitivi, suoni che danno vita ad altre band – su tutti i Boris, con i quali condivideranno i palchi proprio quest’anno -, cannonate veloci come la luce, Kurt Cobain che compare sui crediti e fa poco ma c’è, nella traiettoria del suo disagio, rabbia che non è rabbia ma sola volontà di uscire dagli schemi e crearne altri, più pesanti, più opprimenti, suonati con il ghigno sul volto oppure con una faccia di cemento ma l’occhio tutt’altro che spento. Questi li conosciamo, abbiamo imparato ad amarli e a suonarli così forte da far cagare addosso i vicini. Sempre fuori dalle logiche di mercato, con copertine tutto tranne che appetibili, a volte oscene, altre iconiche e immortali.

Che poi, a un certo punto, non è più una questione di “è buono ‘sto disco dei Melvins?”, dato che alcuni non lo sono e potranno piacere e far emozionare solo i fan più accaniti della band nata a Montesano, Washington, quarant’anni or sono. È una semplice questione di traduzione di un pensiero che non si è mai piegato, nessuna major ha mai domato, nessuno stadio ha mai visto nemmeno in fotografia. I Melvins sono la dimostrazione vivente di come la musica alternativa possa esserlo davvero solo che farla per così tanti anni di seguito, viverci e farla proliferare, non è cosa che chiunque possa permettersi di fare. Nessuna chimera verde dollaro, nessun prurito televisivo (senza dimenticarne la presenza nello show per ragazzi “Uncle Grandpa”, sia ben chiaro), nessuna velleità di fama e voglia di finire su un poster. L’unica certezza che i Melvins ci hanno donato è che non tutto è merce, non tutto stinge e non tutte le band storiche diventano patetiche ombre di sé stesse obbligate a vendere le proprie mutande come memorabilia. I Melvins sono e resteranno sempre storia a sé e non saranno mai in vendita. Discorso da boomer? Non me ne può fregare di meno.

Fateli voi quarant’anni di dischi così.

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