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Politica e distorsione: “Dirty” dei Sonic Youth

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L’estate del ’92 fu una stagione decisamente importante per il rock. In un luglio rovente Thurston, Kim, Lee e Steve diedero vita a “Dirty”, settimo album della band newyorkese Sonic Youth per l’etichetta Geffen. Ma chi erano i Sonic Youth nei primi anni ’90? Sicuramente una delle band alternative-noise più importanti, che aveva già dato alle stampe ben sei dischi.  Le aspettative per quello che sarebbe stato il nuovo disco, quindi, erano davvero alte. “Dirty” si collocò fin da subito tra i dischi più commerciali e sonoramente fruibili della band, ma non per questo privo di quell’equilibrio tra sperimentalità e accessibilità in perfetto stile SY. Poca l’esplosività e la rabbia del grunge, molte le chitarre graffianti e le distorsioni ipnotiche. Dopotutto, i Sonic Youth si sono sempre “differenziati” dalla “corrente Nevermind”, pur restandone una band di riferimento.

La settima fatica firmata SY è un album dichiaratamente politico (fu dato alle stampe al crepuscolo del governo Bush) e questo lo rende modernissimo. Suona dei suoi tempi, ma ci parla anche dei nostri. Le canzoni presenti nel disco descrivono un mondo abitato da artisti, dalla working class, da donne che combattono per i propri diritti. Tra trame intricate di chitarra e uragani noise, “Dirty” da voce ad innumerevoli mondi sotterranei, con lo sguardo costantemente rivolto alla quotidianità e ai suoi eventi felici e tragici. 

Photo: Chris Carroll

Quindici tracce. Ognuna di forte impatto e degna di note. Rumori, strumenti e suoni prendono direzioni diverse, senza però abbandonarsi mai: riff ossessivi, distorsioni dilanianti, graffi color acciaio. In apertura l’eruzione di chitarre e la distorsione di 100% spiana la strada al ritmo concitato di Swimsuit Issue e alla divagazione psichedelica di Theresa’s Sound-World e Wish Fullfillment, ballata torbida che ricorda le sonorità di Lou Reed o Neil Young: “What’s real, what’s true? / I ain’t turning my back on you / Where you goin’, where you been? / Making wishes, watching dreams?”.

Le chitarre di Thurston Moore e di Lee Ranaldo si scatenano attorno alle intricate trame sonore di Drunken Butterfly e Sugar Kane, ma non mancano momenti più delicati come JC, commovente preghiera laica sussurrata dalla voce di Kim Gordon: “And air so thin it weighs a ton / As far as you can see is fun / You’re nothing but a history / A second here and then you’re gone / Quicksand, quicksand all around”. La stessa Kim che in Orange Rolls Angel’s Split, ci regalerà invece un urlo estremo e tagliente, vomitato: “Oh baby don’t you know you’re livin’ on the death / You better stay away if you want to live”.

Come accennato in precedenza, la tematica politica rende “Dirty” estremamente moderno ancora oggi. Menzione particolare a tal proposito, va al brano Youth Against Fascism: semplice ed incisiva sequenza di tre accordi, suona ancora oggi come il manifesto politico di una generazione: “I’m a human wreck, a redneck in check / I killed the teacher’s pet, it’s the song I hate, it’s the song I hate / It’s the song I hate, it’s the song I hate”. Distorsioni, ronzii ipnotici e trame claustrofobiche si impongono per risvegliare l’ascoltatore dai fantasmi del governo Bush e da tutti i fascismi vecchi e nuovi, subdolamente ricomparsi ai giorni nostri, in cui parte di quelle conquiste civili sono andate perdute, altre sono state messe in discussione. Ecco perché un album come “Dirty” è ancora disperatamente attuale, vivo, necessario.

Pennellate pop su tele grunge. “Dirty” è un album ancora capace, dopo oltre trent’anni, di accompagnare l’ascoltatore in un viaggio onirico e psichedelico tra i portali del tempo. Un disco emotivo ed espressivo, destinato a non invecchiare mai.

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