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Ristampe e Dintorni

John Coltrane with Eric Dolphy – Evening at the Village Gate

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Di recente, ho ascoltato un’orribile dimostrazione di quella che sembra essere una crescente tendenza anti-jazz esemplificata da questi principali sostenitori [Coltrane e Dolphy] di quella che viene definita musica d’avanguardia…..Ho sentito una buona sezione ritmica… andare sprecata dietro gli esercizi nichilistici dei due fiati… Coltrane e Dolphy sembrano intenzionati a distruggere deliberatamente [lo swing]… Sembrano intenzionati a perseguire un corso anarchico nella loro musica che può solo essere definito anti-jazz

John Tynan, “Downbeat” (23/11/1961)

Con questa infelice definizione, “anti-jazz”, la prestigiosa rivista “Downbeat” liquidava la musica che il nuovo quintetto di John Coltrane stava portando in giro quell’anno. Sarei curioso di sapere cosa avrebbe detto qualche anno dopo, lo stesso critico conservatore, di fronte alle opere mature del grande sassofonista, in cui il passaggio all’avanguardia e al free-jazz era ormai definitivo. Lo stesso Coltrane al riguardo si chiedeva, senza animosità, cosa si intendesse con questa critica. “Forse che non c’è swing” – concesse Coltrane, allorché “Downbeat” gli diede l’opportunità di rispondere alle critiche. Per poi chiarire: “In effetti, ogni gruppo di musicisti che metti insieme crea una sensazione diversa: uno swing diverso. È lo stesso con questa band. È una sensazione diversa rispetto a qualsiasi altra band. È difficile rispondere a uno che dice che non c’è swing.” E ancora: “ci sono ancora un bel pò di strade aperte per il jazz e saranno tutte esplorate. Io so che vorrò provare tutto.”

Nel 1961 eravamo ancora all’inizio della transizione dal bop al free. “Evenings at the Village Gate”, registrato nel locale di Manhattan durante le 4 settimane di “residenza” nel club ad agosto, è, finalmente, il documento migliore mai pubblicato del quintetto di Coltrane con Eric Dolphy. Una band che oggi, oltre 60 anni dall’infelice commento di “Downbeat”, non possiamo che definire “seminale” nel fissare uno dei tanti punti di evoluzione della musica del genio nato ad Hamlet, North Carolina. “Nel 1961, John stava seguendo un concetto differente dal punto di vista armonico. Stava dando più spazio agli assoli e adottando nuovi sistemi nel modo di costruire le melodie……La band poteva funzionare in modo diverso all’interno di questi parametri, rispetto a tutto quello che suonavamo prima.” – racconta il bassista Reggie Workman.

Se il be-bop è stato per lo swing quello che, decenni dopo, il progressive sarebbe stato per il rock’n’roll, cosa è stato Coltrane per il be-bop? La verità è che una volta che si decide, come si decise rispetto allo swing prima e rispetto al rock’n’roll dopo, che lo scopo del musicista non sia necessariamente far ballare e divertire e intrattenere, bensì creare arte, allora si aprono universi. Il flusso creativo scorre e i geni escono fuori. Che sia un Coltrane o un Jimi Hendrix e non a caso mi viene in mente la frase di Buddy Guy: “Jimi Hendrix è stato il Coltrane della musica moderna”. Così come l’uno portò il jazz verso nuovi lidi, Jimi lo fece con altri figli del blues. Assoli senza una durata definita con un approccio allo strumento, chitarra o sassofono che sia, che non si pone limiti: lo strumento che diventa un’estensione del corpo del musicista, che va piegato alla sua volontà per tirarne fuori qualunque suono in qualunque modo.

E così come negli anni ’40 la critica e l’establishment jazzistici avevano stroncato il bop come “musica cinese” (così si espresse Cab Calloway), nei primi ’60, “Downbeat” non si faceva scrupoli nel castigare l’ulteriore passo avanti che Coltrane, in complicità con Dolphy, proponeva. Eppure, allorché si segue tutta la straordinaria carriera di Trane non si può non intravedere delle linee coerenti che il nostro non ha mai smesso di seguire. L’approccio spirituale alla musica, innanzitutto. “I miei obiettivi rimangono gli stessi e cioè elevare le persone il più possibile, per ispirarle a realizzare sempre di più le loro capacità di vivere vite significative, perché c’è certamente un significato alla vita” – diceva il sassofonista.

Photo: Herb Snitzer

“Evenings at the Village Gate” è un documento sopravvissuto con fortuna. Registrato con un solo microfono con l’intento di testare il suono della sala e non di farne un disco. “Quando ho registrato Coltrane, è stata l’unica volta che ho usato un solo microfono per un concerto live. Se avessi fatto la registrazione con l’intento di pubblicarla, ne avrei usati altri” – racconta l’ingegnere del suono del club, Rich Alderson. I nastri vennero persi, ritrovati e ripersi ancora negli archivi della “New York Public Library for the Performing Arts”. Oggi vengono rilasciati, magistralmente masterizzati, in file di altissima risoluzione (questi solo sulle migliori piattaforme streaming), o piuttosto potete acquistare il doppio vinile (ottima stampa silenziosa) con libretto. All’inizio si può rimanere interdetti da una certa piattezza monofonica imposta dai mezzi di registrazione: gli strumenti sembrano un po’ schiacciati l’uno sull’altro, come è ovvio che sia con un solo microfono. La batteria è leggermente troppo in evidenza e il basso si sente un po’ troppo poco. Ma il suono arriva distinto e chiaro e si sente “suonare” il Village Gate insieme alla band, per non parlare dell’entusiasmo a tratti incontenibile del pubblico presente, che non sembra numeroso ma che da il suo contributo: “Se suoni in un posto dove gli piaci davvero, te e la tua band, possono farti suonare come se non avessi mai avuto voglia di suonare prima”, diceva al riguardo Trane.

Allora, superato l’impatto iniziale di un suono mono cui non siamo più abituati, si resta stregati. Quella qui presente potrebbe essere la più bella versione di My Favorite Things esistente, per la durata di 15’ e 45’’. Dolphy, al flauto, conduce la danza per una buona metà del tempo, prima dell’ingresso spettacolare del sax di Coltrane. Anche su When Things are Low, il leader lascia ampio spazio al compagno, qui impegnato al clarinetto. “Ricordo John che si sedeva al lato del palco, ascoltando Eric che faceva le cose più svariate. Amava il suono del clarinetto basso di Eric” – racconta sempre Workman. Impressions e Greensleeves fanno luccicare l’estro di McCoy Tyner al piano. Elvin Jones è una potenza per tutto il disco e si esalta alla fine su Africa. Il suo drumming, qui si coglie bene, è stato il punto di riferimento di tanti rockettari, cominciando da quello che fu forse il più grande di tutti: John Bonham. Su Africa, Coltrane usa due bassisti: Art Davis suona una specie di assolo permanente, mentre Reggie Workman fa la la parte tradizionale del basso, con un ricercato “effetto drone” che il leader aveva preso dai suoi ascolti di musica indiana.

Era il periodo in cui il sassofonista si era dedicato, tra l’altro, all’ascolto di musica africana e indiana. Ormai è banale dirlo, ma non lo era ai tempi: la musica è una soltanto. Coltrane lo sapeva. Come ebbe a dire il grande Sonny Rollins: “Beethoven sopravvive. Bach sopravvive. Non credo che dovremmo aver paura di porre John almeno al loro livello. Qualsiasi cosa John suoni, qualunque cosa John scriva è oltre, indiscutibilmente oltre”. Anche oltre l’”anti-jazz”.

Allorché la gente comincia ad emozionarsi a quel che sto facendo oggi, la mia testa già si trova da un’altra parte. Ascoltami bene: non smettere mai di crescere; non smettere mai di muoverti; non smettere mai di creare

John Coltrane

Tracklist
1. My Favorite Things
2. When Lights Are Low
3. Impressions
4. Greensleeves
5. Africa

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