You can kill my body
Ghost Dance – Robbie Robertson
You can damn my soul
For not believing in your God
And some world down below
You don’t stand a chance against my prayers
You don’t stand a chance against my love
Canada, Ontario, Riserva delle Sei Nazioni, a cavallo tra gli anni ’40 e ’50: un bambino di Toronto veniva portato dalla madre a visitare la comunità in cui era cresciuta. Lì, il bambino assisteva a bocca aperta ai racconti che gli anziani facevano sulla storia orale della nazione Mohawk. Jaime Royal (poi noto come Robbie) Robertson era nato il 5 luglio 1943 nella metropoli canadese. Da padre ebreo e madre nativa americana. Quella esperienza cambiò la sua vita. Fu allora che il giovane Robbie disse alla mamma cosa avrebbe voluto fare nella vita: raccontare storie come quegli anziani.
I wonder about the tears in children’s eyes
I Wonder – Rodriguez
And I wonder about the soldier that dies
I wonder will this hatred ever end
I wonder and worry my friend
Sud Africa, Città del Capo, Belville Velodrome, 1998: di fronte a un pubblico impazzito di quarantenni che si trovavano di fronte l’idolo di gioventù creduto morto, (Sixto Diaz) Rodriguez apre il suo primo tour sudafricano. Nei precedenti 25 anni, in Sudafrica il musicista aveva venduto più dischi di Elvis Presley, ma lui non lo sapeva, ingannato da discografici disonesti e si era ritirato ad una vita semplice da muratore dopo solo due uscite discografiche e un paio di tour in Australia. Nato il 10 luglio 1942 a Detroit, da padre messicano e madre nativa americana pure lui.
Tra l’8 e il 9 agosto li abbiamo persi tutti e due, uno a Los Angeles, l’altro nella sua Detroit. Uno si è arricchito, prima portando The Band alla fama e al successo internazionali (ne avevamo scritto qui), poi calcando i tappeti rossi di Hollywood al fianco di Martin Scorsese per il quale ha scritto le colonne sonore per decenni. L’altro, anche una volta raggiunta la fama tardiva, ha preferito rimanere vicino alle sue origini umili e alla desolazione urbana che sapeva raccontare così bene.
Quando incappai la prima volta in Ghost Dance dal terzo album solista di Robertson, “Music for the Native Americans”, mi ci volle un pò per convincermi che non fosse, in qualche modo, un “traditional”. Un canto originale di quel popolo per narrare il massacro di Wounded Knee, adattato dal musicista canadese. In quelle parole, di chi sta andando incontro a morte certa perché sa di confrontarsi con un nemico dalla forza schiacciante, eppure trova serenità nella sua forza spirituale (“non hai nessuna possibilità contro il mio amore, non hai nessuna possibilità contro le mie preghiere”), e nella certezza che c’è altro oltre questo mondo (“potete uccidere il mio corpo, potete dannare la mia anima perché non credo nel vostro dio….ma noi vivremo di nuovo”), ho trovato conforto nei momenti più difficili della mia vita, quando mi sentivo debole di fronte agli eventi e agli abusi. La profondità dei testi, l’epica della musica inducono naturalmente a pensare che non può averlo semplicemente composto lui nell’anno 1994.
Ma Robertson è così. Stessa sensazione di straniamento e stupore ebbi quando conobbi The Night They Drove Old Dixie Down, la ballad dei The Band sul collasso della Confederazione sudista nella guerra civile americana. Canzone che recentemente è incorsa negli strali della “cancel culture”, pur non contenendo nemmeno una parola di compiacenza verso la causa razzista e schiavista. Limitandosi a esprimere empatia per la gente semplice del sud travolta da eventi storici più grandi di loro. Quell’epica e quella profondità di narrazione probabilmente s’impara solamente se da bambino siedi in un cerchio della Riserva delle Sei Nazioni ascoltando i racconti degli anziani. Come ha detto Martin Scorsese, commentando la scomparsa del suo grande amico: “La musica dei The Band e poi quella da solista di Robbie sembravano provenire dal luogo più profondo nel cuore di questo continente, dalle sue tradizioni, tragedie e gioie”.
Su Rodriguez, se non lo conoscete, dovete assolutamente vedere “Searching for Sugar Man”, vincitore del Premio Oscar 2013 come miglior documentario. Il film racconta le origini umilie poi i dischi usciti tra il 1970 e il 1971 senza successo in patria. Mentre il culto si diffondeva in Sudafrica. In tutte le case della borghesia bianca, possibilmente liberal e anti-apartheid, c’erano i suoi vinili. Con quelle canzoni che parlavano di droga, sesso, alienazione urbana, di relazioni senza amore. Con un songwriting che ha poco da invidiare a Bob Dylan per la capacità di descrivere i personaggi, le scene e guardarli lucidamente e senza ipocrisia. I giovani sudafricani con le sue canzoni potevano fuggire dalla realtà ristretta di un paese sotto embargo e di un regime reazionario e criminale.
Fu la figlia di Rodriguez, dopo l’avvento di Internet, nel 1997, a contattare un website di fan sudafricani del padre, fatto proprio per capire che fine avesse fatto questo artista del quale in Sudafrica si diceva si fosse suicidato dopo le due uscite discografiche. Quando i fan seppero che il loro mito era vivo, gli mandarono un biglietto aereo e gli organizzarono un tour nel paese. Arrivato a Città del Capo con soltanto una chitarra, a Rodriguez serviva una band di supporto ma non fu un problema trovarne una che volesse esibirsi con lui: quale musicista professionista sudafricano non conosceva le sue canzoni? Malgrado l’abbraccio entusiasta del Sudafrica e la fama successivamente raggiunta in patria grazie al film, l’artista ha mantenuto comunque un basso profilo. Sembra che negli USA abbia continuato a vivere modestamente nella misera casa comprata nel 1976 per 50 dollari a un’asta pubblica. Per anni Rodriguez si è domandato se promuovere un’azione legale per recuperare i soldi che non gli erano stati pagati dai discografici. Fedele ai testi di una sua canzone: “And you can keep your symbols of success / Then I’ll pursue my own happiness”. Finché si è deciso a farlo e nel 2015 la giustizia gli ha riconosciuto un compenso di entità non nota.
Rodriguez, in questi 25 anni, non ha più scritto musica nuova, ma ha continuato a fare concerti qui e lì e a combattere le sue battaglie politiche e sociali a favore dei più poveri arrivando persino a candidarsi come sindaco di Detroit. I soldi guadagnati grazie alla notorietà acquisita negli ultimi anni, nonché quelli ottenuti tramite l’azione legale si dice li abbia usati per cause benefiche e per aiutare amici e familiari. Robertson invece, dopo lo scioglimento dei The Band, ha fatto 5 dischi solisti, l’ultimo nel 2019 e innumerevoli soundtracks: l’ultima per “The Irishman”, il film di Scorsese per Netflix, sempre nel 2019; e il suo contributo comparirà anche nel prossimo film del grande regista, “Killers of the Flower Moon”. Due artisti, uno canadese e mainstream per la sua generazione, l’altro statunitense e sconosciuto in patria per la maggior parte della sua vita, che potrebbero avere poco in comune, salvo le origini comuni in tribù nativo americane differenti. E il fatto di avere raggiunto gli antenati a poche ore di distanza gli uni dagli altri.
Quello che è certo è che di cantastorie come loro avremo sempre bisogno. Quello che è certo è che entrambi si trovano ora in quel luogo eterno e meraviglioso dove, dopo l’esperienza terrena, vanno i nativi americani, popolo dalla spiritualità avanzata. E probabilmente su questa Terra torneranno in nuove forme, secondo alcune credenze proprie di quel popolo. Ma in ogni caso, continueranno a vivere accanto a noi, dentro di noi, attraverso le loro canzoni che raccontano il Nordamerica dei grandi spazi aperti e quello delle grandi città, con le persone di ogni origine che lo popolano.
But we shall live again, we shall live again
Robbie Robertson – Ghost Dance