Ricordo perfettamente quella sera di un non così lontano maggio 2016. Sulla pagina Facebook degli Agalloch viene annunciato il loro scioglimento e io non riesco a crederci. Non riesco a credere che una delle mie band preferite di allora, che sognavo un giorno o l’altro di vedere dal vivo, avesse deciso di non comporre più musica insieme. L’impatto che ha avuto il quartetto statunitense sulla mia vita è stato davvero forte. Non quanto lo è stato quello di band come gli Ulver (che gli stessi Agalloch citano come influenza), ma grande abbastanza da farmi uscir fuori qualche lacrima ogni volta che metto su determinati loro dischi. “The Mantle” è decisamente uno di quei dischi.
Lo scorso anno, nel 2022, compiva ben 20 anni. Esce il 13 agosto 2002 e si succede al primo album “Pale Folklore” (1999) e al primo EP “Of Stone, Wind and Pillor” (2001), lavori decisamente diversi da “The Mantle”, che non avevano spezzato il fiato ma che avevano tirato la corda abbastanza da poter portare attenzione alla loro musica. Musica che s’ispira alle chitarre dei Katatonia e al sound dei padri spirituali Ulver (sempre siano lodati), che richiama antiche storie e leggende, condite da atmosfere oniriche e trascendentali. E così, il paesaggio innevato degli Agalloch di ”The Mantle” si dipinge di folk, di natura, di malinconia. L’apertura acustica di A Celebration for the Death of Man… ci conduce dinnanzi ad un dirupo e abbiamo due scelte: saltare nel vuoto e scoprire quello che vi è oltre, oppure tornare indietro ai tempi del caro, vecchio black metal.
Ma il black senza mezzi termini, agli inizi degli anni duemila, è un genere ormai saturo, che ha vissuto la sua epoca d’oro negli anni ‘90 con musicisti come i Mayhem, i Darkthrone, Burzum. Il genere ha sempre avuto qualcosa da dire, ma evolvendo e mutando in forme ora più atmosferiche, ora più oscure, ora più scattanti, ora più lente. Gli stessi Ulver, che gli Agalloch citano come forte influenza, hanno iniziato come band black metal lasciando però sparse le tracce di una quasi impavida rivoluzione in atto, proprio a fine secolo scorso. Ed è dal cambiamento messo in atto proprio dalla band norvegese che gli Agalloch ripartiranno, nel nuovo millennio. ”The Mantle” è figlio di una rottura con il black metal più puro e tradizionale, che si percepiva già nella chiusura di Pale Folklore: il brano finale The Melancholy Spirit rappresenta il primo puntino che si andrà ad unire ai successivi, delineando un universo mai statico, in continua mutazione. L’iniziale calma esistenzialista del secondo brano (il primo con voce) di ”The Mantle“, ovvero In The Shadow of Our Pale Companion, crea una sorta di estasi che pian piano cresce fino a disperdersi sulle note vocali di John Haughm, ora limpide ed eteree, ora selvagge e ruvide. La lunga coda finale del brano sfocia nell’emotività più sincera, che ben si collega ai suoni evocativi della successiva Odal.
Ma può una band come gli Agalloch dimenticare come si picchia duro? Mai. Ci pensa I Am the Wooden Doors a riequilibrare il pasto servito da ”The Mantle“, con le sue veloci ma mai agitate sfuriate black. A metà disco ci si perde in The Lodge, che sancisce un limite oltre il quale l’album inizierà a farsi ancora più cupo e introspettivo. Tornano di nuovo le agitazioni stilistiche del black metal, come anche i passaggi acustici e strumentali. I due brani che chiudono l’album ci avvolgono in un turbine di emozioni, di sensazioni, di visioni mistiche, tra fiabe folkloristiche e rituali quasi magici, in cui ancora una volta il cantante alterna momenti vocali puliti ad attimi che sono l’esatto opposto, ma sempre con estrema eleganza e cura. Ciò che ha sempre contraddistinto gli Agalloch da altre band della scena sta proprio in questo: entrare nell’immaginario collettivo delicatamente, quasi in punta di piedi, lasciando però un segno ben evidente del proprio passaggio. Soprattutto quando quel passaggio proviene da impronte che hanno attraversato sentieri bianchi e silenti, per giungere sulla Terra e bussare alle nostre porte, facendo arrivare a destinazione la propria visione del mondo. Una visione cruda, disillusa, in cui l’uomo è il solo ed unico distruttore del pianeta che abita. La Natura è la divinità che lo ospita, ma per quanto altro tempo ancora ci darà il permesso?
Il neofolk a tinte black di “The Mantle” è un lavoro spirituale e profondo. Dovremo aspettare 4 anni per l’uscita del successivo disco, che costituirà l’ennesima evoluzione della band. Ma nel frattempo, se non conoscete gli Agalloch del secondo album, l’ora è giunta. Mettetevi comodamente seduti in una sera d’autunno o d’inverno, copritevi con un caldo manto davanti ad una tazza bollente e lasciatevi avvolgere. C’è qualcuno che vuole raccontarvi delle storie.