Premessa doverosa: fa strano scrivere dei “primi” Coldplay. Si ha quasi la percezione di parlare di una band del tutto differente da quella attuale e chiacchieratissima esibitasi quest’anno, tra le tappe del fortunato Music of the Spheres World Tour, anche negli stadi italiani (tra questi, non posso non citare lo Stadio Maradona a Napoli e il chiassoso trambusto che ha avvolto la città in quei giorni). La band è la stessa, quindi perché “strano”? “Nulla è cambiato, ma tutto sembra diverso” – ronza in testa una vecchia canzone.
Ebbene, oggi sembra essere ben lontani da quel mondo intimistico e sensibile di un album come “A Rush of Blood to the Head” in considerazione della scelta smaccatamente pop, inseguita negli ultimi anni dal quartetto londinese, con annesse collaborazioni più o meno discutibili, sfocianti spesso in una forzata allegria mondialista, che lasciano sicuramente straniti. Eppure questo “cambiamento” (o sarebbe meglio dire “evoluzione”?) non ha intaccato quella ingenuità bambina che da sempre li caratterizza. Tuttavia, a prescindere dalla direzione presa da Chris Martin e soci in anni recenti e dalle vivaci polemiche che potrebbero sorgere sull’argomento, oggi raccontiamo un album che mi ha tenuto compagnia nelle cuffie in più occasioni, un album a cui non può di certo negarsi emotività e capacità compositiva al di sopra della media.
Correva l’anno 2002. Dopo il felicissimo esordio (ndr. “Parachutes” aveva presentato al mondo un pop intimista e delicato, facendo guadagnare alla band milioni di copie vendute e un Grammy come miglior album alternativo) le aspettative erano altissime. “A Rush of Blood to the Head” fu una brillante conferma. Sebbene la narrazione britannica abbia da sempre esaltato gli “outsider della working class” (si vedano gli Oasis, come esempio tra tutti), e di certo non perdonato facilmente ai Coldplay la faccia da bravi ragazzi della classe agiata, il secondo album della band convinse i più, tanto da consacrarli nel panorama musicale del brit-pop come una delle migliori band emergenti dell’Inghilterra del tempo. Sarà proprio “A Rush of Blood to the Head”, infatti, insieme al conseguente tour, a dare il via a quella “Coldplay-mania” che contagiò i fan in più parti del mondo, oltre ad inaugurare futuri anni di creatività ed eterogeneità per i quattro musicisti britannici (di lì a poco sarebbe arrivato “X&Y” ampliando il suono della band verso la transizione di quello che sarebbe stato il fortunatissimo “Viva la Vida” fino ai lavori più recenti).
Sulla copertina di “A Rush of Blood to the Head” (decisamente una tra le più suggestive) troviamo un immagine asettica, enciclopedica, quasi scientifica, disegnata dal fotografo Sølve Sundsbø, che ben si sposa con l’analisi che potrebbe farsi di “un afflusso di sangue alla testa”: sinonimo di pazzia, frenesia mescolata ad impulso; fluire del sangue al sistema encefalico-nervoso, sede di ogni ragionamento e di ogni paura. “A Rush of Blood to the Head” trasuda ispirazione e potenza, risultato delle quattro personalità della band: uno studioso di storia antica con un trascorso classico e jazz che si alterna tra voce, chitarra e pianoforte; un polistrumentista preciso e muscolare alla batteria; un bassista che suona note di velluto; un chitarrista oscillante tra tecnica e semplicità. Il tutto è puro rock di matrice inglese, struggente, equilibrato, melodico, srotolato in undici tracce.
Apre il disco in modo secco Politik, scritta dopo gli attentati terroristici dell’11 settembre. Brano imponente e prepotente, dal ritmo ossessivo e martellante che ti travolge in una giostra emotiva, tra strofe inquiete ed esplosione di ritornelli fino ad arrivare alla tranquillità del finale: “Open up your eyes / Just open up your eyes / And give me love over / Love over”. I toni cambiano subito con la successiva In My Place: intro di alabastro, riff lento, chitarra, basso e batteria circondano la voce di Chris in una ballad in perfetto stile Coldplay: “In My Place, In My Place / Were lines that I couldn’t change / I was lost, oh yeah / I was lost, I was lost / Crossed lines I shouldn’t have crossed / I was lost, oh yeah” (c’è chi l’ha letta cantando e chi mente).
Atmosfere completamente diverse suggerisce God Put a Smile Upon Your Face, introspettiva, cupa e magnetica, si gioca su chiaro e scuro, pieno e vuoto, aperto e chiuso. La voce di Chris Martin si sdoppia potenziando la resa sonora del brano che lascia l’ascoltatore in balia di molte domande e poche risposte. Segue la ballad pop-rock The Scientist con le sue note eleganti di piano e i suoi versi sinceri: “Nobody said it was easy / It’s such a shame for us to part /Nobody said it was easy / No one ever said it would be this hard / Oh, take me back to the start”. La quinta traccia Clocks è un brano atemporale, disteso su un riff di pianoforte tanto etereo quanto incalzante, un basso geometrico e chitarre in lontananza. Brano ipnotico e ricco di atmosfera, coinvolgente e nervoso (ascoltarlo live permette di lasciarsi trasportare completamente dal flusso di una incessante fuga dal tempo, quasi fossimo un Bianconiglio in ritardo in un mondo delle Meraviglie).
La seconda parte di “A Rush of Blood to the Head” si apre con Daylight e col suo miscuglio di ispirazioni: ci sono i Beatles, il pop strumentale degli anni ’80, l’english rock degli anni ’70, il cantautorato di Neil Diamond e le melodie di Burt Bacharach. Arriva poi in punta di piedi la dolcezza e il candore di Green Eyes: “Honey, you are the sea / Upon which I float / And I came here to talk / I think, you should know” – sussurra la voce pacata a tratti rauca di Chris, cullata da note delicate di chitarra, quasi confidasse all’ascoltatore il segreto nascosto dietro due occhi verdi. Ci si ritrova raggomitolati poi nella meditabonda Warning Signs. Tornano gli archi malinconici in una ballata lineare e ammaliante, commovente e morbida. Ad ogni ascolto sembra di rincorrere gli arabeschi disegnati dal violoncello, immersi in uno sciame di farfalle colorate, che si posano sulle corde del basso e sui tasti del pianoforte: “When the truth is / I miss you / Yeah, the truth is / That I miss you so / And I’m tired / I should not have let you go”.
A Whisper col suo ritmo attorcigliato regala uno dei ritornelli più riusciti, che entra prepotentemente in testa. Un coacervo di suoni industriali e metallici che rimanda alla memoria alcuni pezzi dei Pink Floyd; una corsa senza fiato lungo una strada grigia di periferia. Le pennellate di chitarra tormentano incessanti la tela musicale, che risucchia in essa tutti i suoni circostanti in un unico e ansiogeno bisbiglio, chiudendosi poi un vitreo assolo finale. La struggente e cupa title track, che accompagna l’ascoltatore verso il brano conclusivo attraverso una lunga coda strumentale, è la chiave di tutto il disco. Versi decisi e diretti, sound marcatamente rock, la voce di Chris: ingredienti perfetti per quello che ha tutte le carte per essere additato come il pezzo migliore dell’intero disco. C’è un suono costante che invade i sotterranei melodici del brano, mentre i fraseggi di chitarra si sfumano nell’eco della voce. Sul fondo le influenze di Bowie e dei Pink Floyd, sapientemente riscritte con un approccio strumentale più secco e compatto.
In chiusura del disco un lungo monologo di pianoforte e la voce di Chris Martin. Amsterdam è senza ombra di dubbio uno dei brani più belli scritti dalla band. Un’atmosfera quasi soul, gocce di pioggia sul pianoforte e l’eco di cori sommessi. Il ritornello esplode tra i versi svolazzanti per chiudersi in un finale da pelle d’oca: “Stuck on the end of this ball and chain /And I’m on my way back down again / Stood on a bridge, tied to the noose / Sick to the stomach / You can say what you mean / But it won’t change a thing / I’m sick of the secrets / Stood on the edge, tied to the noose / You came along and you cut me loose”.
“A Rush of Blood to the Head” dei Coldplay è un disco che distilla emozioni. Una costante e camaleontica metamorfosi di colore per adattarsi al singolo ascoltatore. Un disco da riascoltare, ad anni di distanza, per apprezzarne ancora sonorità e versi. E scoprire poi che un po’ si incolla alle dita. Agli occhi. Al cuore.