1. Connection
2. Subsidiary
3. Soldiers in the Army of Love
4. Ecstacy
5. Swan
6. No Name
7. Heart Attack
8. That's Entertainment
9. Order of Protection
10. Crumbia
Marc Ribot ha quasi 70 anni e se li porta proprio bene, almeno musicalmente parlando. Questo è il primo pensiero che mi viene durante l’ascolto di “Connection”. Sapevate che il grande enciclopedista del rock, Piero Scaruffi, lo ha classificato al terzo posto della classifica dei più grandi chitarristi? Non pago di tanto onore, il nostro continua a produrre idee e progetti che cercano di superare i limiti imposti da tante prestigiose collaborazioni nel corso di una lunga carriera (Elton John, Diana Krall, Tom Waits sono solo alcuni nomi di una lista infinita). Questa la premessa per affrontare “Connection”.
Venendo al disco in sé, si attacca con quattro tracce cantate: una piccola rassegna di “weird songs” più o meno accessibili: Connection, Soldiers in the Army of Love e Ecstasy sono punk rock abbastanza accessibile, a tratti orecchiabile; Subsidiary è appena più complessa, avanguardia urlata e noise. Con Swan si passa direttamente all’improv: 10 minuti di pennellate chitarristiche sostenute da una sezione ritmica fluida. No Name è la mia traccia preferita: costruita su una struttura armonica tanto semplice quanto atonale, che cresce d’intensità fino a sfociare in un riff di violoncello liberatorio dell’energia fino a lì compressa. Con Heart Attack ricomincia il cazzeggio, anzi lo si porta al massimo con una serie di grevi parolacce in italiano. That’s Entertainment è un altro esempio di “weird rock’n’roll”. Si termina infine con due esercizi di stile. Order of Protection è un blues che poteva stare bene su un disco di Stevie Ray Vaughan. Niente di sperimentale, se non un certo gusto chitarristico portato all’estremo. Se siete avvezzi al buon blues, non potrete che apprezzare. Crumbia risulta più debole e meno ispirata, nella ricerca di un sound latino che non s’impone mai come autentico.
Marc Ribot ha quasi 70 anni e fa quello che vuole con la chitarra e con la musica. Questo è il secondo pensiero che mi suscita il disco. Tuttavia, non ha la rabbia di un punk rocker, la leggerezza di un improvvisatore, né il feeling di un bluesman o il senso del ritmo di un latino. Ora, se “Connection” sia solo un esercizio di stile da parte di chi domina la chitarra e la musica e può farne qualunque cosa voglia, piuttosto che una prova di grande intensità e versatilità, dopo ripetuti ascolti non mi è ancora chiaro.
L’impressione è che si rimanga volutamente a metà del guado tra originale e scolastico, in un’ambiguità in cui l’intero progetto Ceramic Dog probabilmente si trova a proprio agio.