Distruggere è sempre più drammatico che costruire. Il post punk fu costruttivo e lungimirante, a partire dal suo stesso prefisso, segno di fiducia in un futuro che il punk aveva decretato inesistente
L’aspetto del post punk che più merita di essere ripescato sembra essere la sua tensione al cambiamento. Un’impostazione espressa tanto nella convinzione che la musica dovesse guardare sempre avanti, quanto nella fiducia che la musica potesse trasformare il mondo, fosse anche alterando le percezioni di un singolo individuo o allargandone il senso della possibilità. Furono il punk e il post punk a convincermi che la musica potesse contare tanto. L’idea del cambiamento- nella musica, con la musica- era solo un passatempo? Non lo so, ma sarò eternamente grato a questo periodo per avermi consentito di pretendere tanto dalla musica
Dal libro Rip It Up and Start Again di Simon Reynolds
La mia fissazione per il post-punk risale a periodi più spensierati ma non per questo felici della mia vita, in cui come preoccupazioni non c’erano né soldi, né lavoro, né rapporti. Tutto è partito con il punk. L’agognata urgenza di ribellione verso un sistema che mai mi è appartenuto, in cui la voce di Johnny Rotten si agita al microfono con il suo sguardo psicopatico e i suoi capelli arancioni, accompagnato dagli altri membri che sembrano folli ma non quanto lui, con una regina Elisabetta sullo sfondo che scruta e osserva ma a cui non è consentito giudicare. Come ogni cosa tirata molto per le lunghe, il bisogno di andare oltre quello che il punk aveva rappresentato arrivò, e presto avrei scoperto che nel prefisso “post” era nascosto un intero pianeta che aveva oltrepassato i confini del punk e aveva sviluppato vita propria.
La sensibilità artistica e le strane movenze di Ian Curtis mi avrebbero conquistata a tutto tondo, così come il fascino gotico di Peter Murphy che non riuscivo a decifrare ma che, proprio per questo, mi attirava al suo mondo. Non mi dilungherò in questa introduzione perché lo farò descrivendo gli album che ho selezionato come i 30 migliori album post punk dal 1977 ad oggi. Va da sé che questa è una mia personale classifica, non è legge e non è affatto indiscutibile.
Il post-punk abbraccia talmente tante sfumature e possiede così tante facce che è difficile scegliere solo 30 dischi ed è altrettanto difficile scegliere il criterio di selezione. Io mi sono basata sui miei gusti e sul mio istinto. Ci sono album più canonici e album meno canonici, album più accessibili e album più ostili, album che troveranno d’accordo tutti (voglio sperare) e album che mi faranno beccare forse qualche parola fuori posto, così come l’assenza di determinati lavori che so benissimo essere essenziali ma che non ho inserito per non superare il limite prefissato, ma com’è che ho scritto prima? Ah sì, questa classifica non è legge. L’ordine è totalmente a caso. E ho anche scelto di non trattare di post-punk di zone al di fuori di Inghilterra e Stati Uniti, tranne in un unico caso. Bene, allora possiamo iniziare.
Spero solo che leggendo tra le righe, si riuscirà a percepire tutto il mio sconfinato amore per il genere musicale che più di tutti mi rappresenta e che ogni giorno che passa, costituisce un motivo in più di riscoperta della musica. Un genere che è nato dalle ceneri di qualcosa di enormemente rivoluzionario, destinato a vivere e rivivere più volte nel corso di tutti questi anni, nel tanto caro passato, nell’incerto presente e nel futuro che è ancora tutto da scrivere.
Mai avuto la sensazione che vi abbiano fregati?
Johnny Rotten
Avrei potuto scegliere qualsiasi disco dei The Fall, a partire da quello d’esordio del 1979, passando per album meno acclamati tra gli anni ‘90 e i Duemila. Si va a colpo sicuro quando di mezzo c’è Mark Edward Smith, fondatore della sua stessa band a cui rimarrà legato per sempre, indissolubilmente. Unico membro fisso e frontman geniale dalla spiccata e complessa personalità, si divideva la scena con un altro leader della sua stessa Manchester, ovvero Ian Curtis. Se quest’ultimo ha avuto vita breve, ma è rimasto nel cuore e nella mente di moltissimi, il solo ed indiscusso leader dei The Fall è sempre passato in ombra rispetto a tanti suoi contemporanei, nonostante la proficua attività (ben 31 album) e nonostante sia stata più che evidente la sua influenza negli anni a venire. Gli è debitrice praticamente tutta la scena post punk degli ultimi anni, per merito della quale tanti giovani hanno riscoperto la bellezza dei dischi di Smith, con le sue poetiche e taglienti parole e la sua incredibile unicità. Tanti emuli, ma nessuno che lo raggiungesse. E nessun album che abbia raggiunto i livelli di “Hex Enduction Hour“, in quel 1982 che segnava un po’ il confine tra il post punk e il resto del mondo. Perché ho scelto questo disco? Perché sovrannaturale e psichedelia s’incontrano in una strada buia e soffocante, come mai i The Fall avevano sperimentato prima. Le linee di basso di Steve Hanley in brani come Iceland (una delle vette dell’album ma di certo non la sola) e Winter sono cupe, ripetitive, opprimenti, e danno ad ogni singola parola pronunciata da Smith una veste claustrofobica e vibrante. Con le dirompenti aperture The Classical e Jawbone and The Air Rifle attraversiamo sentieri conosciuti e più sicuri, per poi calarci in atmosfere meno accessibili nella quasi (molto quasi) ballad Hip Priest. A proposito dell’album, Smith diceva: “Quando sei impantanato nella merda dei tempi con blandi bastardi come Elvis Costello e gli Spandau Ballet, inizi a mettere in discussione non solo i gusti delle persone ma anche le loro esistenze. Non andrai da nessuna parte con tutta quella merda. Volevo un album che fosse come leggere un libro davvero bello. Bevi un paio di birre, siediti e immergiti. Nessuno di quegli stronzi l’ha fatto. Non penso nemmeno che ci abbiano provato. Preferisco ascoltare i costruttori polacchi che sferragliano nella porta accanto piuttosto che qualsiasi altra merda”. E come dar torto ad una delle menti musicali più geniali (lo so, l’ho già detto) degli ultimi 45 anni?
I Cocteau Twins dell’album di esordio sono un patrimonio da salvare. Ricordati come gli inventori del dream pop, negli anni hanno davvero inventato un genere musicale che fonde atmosfere eteree e cupe, in un’estasi di profonda malinconia sussurrata e quasi non detta, per lo più incompresa. I primi due album in studio della band si possono considerare ancora figli di un post-punk a tinte gotiche, mentre dal terzo disco “Treasure” (1984), passando per il capolavoro “Heaven or Las Vegas” (1990), il sound della band è proiettato su un altro fronte, quello del già citato dream pop. Il debutto “Garlands“, che rientra a tutti gli effetti nel filone post-punk, ha tanto da ringraziare e poco da invidiare a dischi della medesima oscura e tenebrosa ondata. Dischi come “Pornography“, “Mask” e “Juju” hanno una forte influenza su Elizabeth Fraser (voce), Robin Guthrie (chitarra e drum machine) e Will Heggie (basso). Quest’ultimo membro risulterà estremamente decisivo ed incisivo, pronunciando la corretta formula magica per incastrare nell’universo darkwave dei Cocteau Twins, quello post punk. Sarà il suo primo ed unico lavoro nella band, un testamento spettrale e infuocato. Come spettrale e infuocata è la voce della Fraser, grande estimatrice di Siouxsie dei Siouxsie and the Banshees, dalla quale riprende la parte gotica nel modo di cantare, aggiungendo però quel personale tocco ethereal wave che ad ogni traccia lascia un segno ben evidente. D’altronde, se Elizabeth Fraser ha collaborato anche (tra i tanti) con i Massive Attack in uno dei brani più famosi della band (Teardrop), influenzando intere generazioni musicali col suo modo di cantare, un motivo deve pur esserci. “Garlands” è uno dei dischi più cupi e più indecifrabili di quegli anni. Una giostra dipinta di nero che in maniera ossessiva ripete suoni, parole, note, lamenti, fino a toglierti lucidità e volontà. E forse, è proprio quello il suo intento.
“154“, come il numero di date fatte dai Wire fino all’uscita di questo terzo album. Chiude infatti una trilogia iniziata con il debutto “Pink Flag” (1977), proseguita poi con Chairs Missing nell’anno successivo e con “154“, che segna un punto di rottura con la casa discografica EMI e la fine di un’epoca. Il quartetto di Londra inizia in piena esplosione punk ma procede per direzioni più contorte e complesse, complice anche la spiccata vena artistica d’origine della band (quasi tutti uscivano dall’accademia d’arte), che segue schemi quasi matematici nelle melodie, nelle armonie, nel modo di cantare dei vari membri e anche nel modo di stare sul palco. Composti, mai eccessivi, mai fuori luogo, minimalisti e aggressivi al punto giusto, con “Chairs Missing” e “154” hanno riscritto la storia della musica e donato al post punk eleganza, intelligenza, discrezione, sia in addizione che in sottrazione, andando ad arricchire e contemporaneamente a togliere lì dove ce n’era più bisogno. La glacialità di Colin Newman alla voce e le atmosfere disincantate e distaccate di questo terzo disco, rendono il mondo dei Wire un gigantesco dipinto astratto e carico di mistero. “154” è una pietra miliare, così come i due album precedenti dei Wire, che ancora oggi non sono così conosciuti come meriterebbero. Rientrano di diritto tra le band più influenti del periodo 1977-1980 di cui ancora oggi sentiamo il forte peso, insieme a Joy Division, PIL, Talking Heads, Pere Ubu.
“Mai avuto la sensazione che vi abbiano fregati?”. 14 Gennaio 1978. Così Johnny Rotten termina il percorso con i Sex Pistols. Si apre così la fase più matura di Lydon, quella meditata già da tempo. Stufo della direzione che il punk aveva preso e della sua continua ribellione. Era il più “colto” della band, per inciso. Quello dai gusti musicali più disparati, dal reggae all’art rock passando per l’r&b, con una sofferente sensibilità e voglia di esprimersi a tutto tondo, ingabbiata nel personaggio punk che, nell’ultimo periodo, interpretava. Capitolo Pistols chiuso, pochi mesi dopo i Public Image LTD prendono vita e dopo un’iniziale riluttanza da parte di fan, ex fan e dal mondo dell’ormai defunto punk suonato in sole due note, anarchico, ribelle, si comincia a percepire qualcosa dal sentore rivoluzionario e di cui, guarda caso, quello che era stato uno dei personaggi punk più importanti fino ad allora, non smette di esserne protagonista. I primi 10 minuti di “Metal Box“, secondo album dei Public Image LTD, si aprono con una delirante e cupa Albatross, lasciando intendere che l’allora trio britannico (il batterista Jim Walker aveva lasciato la band) era nella fase post-debutto più sperimentale e criptica. Se con il loro debutto si respirava un’aria sicuramente diversa, irriconoscibile, ma ancora non del tutto consapevole, in “Metal Box” si fanno 100 passi avanti. I testi di Lydon sono più criptici e personali (la morte della madre del cantante), così come il suo modo di cantare, le atmosfere sono più oscure, le melodie più avanguardiste, i ritmi del basso di Jah Wobble più dub e reggae e la chitarra di Keith Levine più abrasiva. Ne esce fuori uno degli album più influenti ed essenziali del genere.
Finalmente è arrivato il turno del primo progetto musicale degli anni duemila che ci tengo ad inserire. Canadesi, noti come Viet Cong (ai tempi di questo primo album in studio), quelli che oggi sono conosciuti come Preoccupations, nel 2015 escono alla luce con un album fresco, nuovo, di appena 7 tracce, che sperimenta parecchio, seppur buona parte del disco si basi in maniera quasi ossessiva su giri di basso alla Joy Division – Silhouettes ne è un fulgido esempio – e atmosfere cupe, quasi gotiche, tipiche del genere più puro. La voce di Matt Flegel (che è anche il produttore del disco) è una nota distintiva e riconoscibile allo stesso tempo. Autoritaria e sfacciata da un lato, accomodante e confortevole dall’altro, a tinte Robertsmithiane (si dice?) e che, tra un urlo e un altro, anticipa di gran lunga la nuova ondata post-punk che, in quel periodo, proviene soprattutto da Canada e Stati Uniti.
Ammettiamolo, chi non ha impressi nella testa la linea di basso e il riff di chitarra di Damaged Goods, il brano più famoso e ricordato dei Gang Of Four nonché anche uno dei più coverizzati, imitati, messi nei dj set di tutto il mondo? Il quartetto di Leeds debutta nel 1979 con l’album “Entertainment!” dalla copertina fortemente esplicativa: un indiano stringe la mano ad un cowboy impaziente di schiavizzarlo. Colonialismo, sfruttamento, razzismo, sono solo alcuni dei temi toccati dai Gang Of Four nel loro debutto d’oro. Non si piegano all’industria mainstream che li vuole far esibire a Top of the Pops cambiando alcune parole dei loro testi perché ritenute volgari, né vogliono essere delle star. Il loro obiettivo è portare alla luce certe tematiche attraverso la loro musica funk e punk, estenderle alla cultura di massa. Andy Gill, l’ex chitarrista della band, ricorda come lui e i suoi compagni fossero convinti che il sogno di Pop Group e Slits di “sfuggire all’inferno fosse solo una stronzata senza speranza, per quanto amassimo quei due gruppi. A noi interessava non essere puri: le canzoni dei Gang Of Four parlavano spessissimo dell’incapacità di avere le mani pulite. Non era fra le nostre priorità lavorare per un’etichetta davvero indipendente, ammesso che esistesse”. “Entertainment!” rappresenta uno dei dischi fondamentali e maggiormente illuminanti del post-punk tutto.
Siamo dinnanzi ad una pietra miliare della musica, tutta. In ogni nota, in ogni gesto, in ogni acconciatura o riga di eyeliner. Sin da piccola avevo timore di fronte all’immagine della cantante Siouxsie, quasi paura. Quella sensazione era dovuta al fatto che la ritenessi “strana”: una bellissima donna il cui viso era ricoperto da quel trucco così bizzarro, con quei capelli altrettanto assurdi e ingombranti e lo sguardo penetrante, di una che vuole costringerti a non toglierle gli occhi di dosso. Ed effettivamente tutto ciò mi attraeva. Ancora non capivo. Quando poi, crescendo, ho cominciato ad ascoltare i Siouxsie and the Banshees e in particolar modo il quarto disco Juju, mi sono resa conto della bellezza del mistero. Sì, perché “Juju” è un enigma che mescola suoni e testi esoterici e occulti a elementi musicali etnici e tribali (il singolo Arabian Knights o la delirante chiusura Voodoo Dolly ne sono classici esempi), senza lasciar indietro l’universo psichedelico. “Juju” è un ammaliante arcano da capire e decifrare. E da amare, avvolto nel suo mistero.
Ogni volta che ascolto i primi due album dei The Sound provo tristezza e rabbia, perché penso a quanto la loro musica e i loro testi fossero avanti rispetto a quelli di tanti gruppi a loro contemporanei. Provo tristezza e rabbia per averli scoperti colpevolmente tardi. Provo tristezza e rabbia per la drammatica fine del frontman Adrian Borland, essere umano dotato di spiccata sensibilità e talento, che ha combattuto con la sua salute mentale già negli anni dei The Sound e con una depressione durata 14 anni, fino al tragico epilogo che culmina nel suicidio. E proprio quella della band inglese è stata una carriera che avrebbe potuto e soprattutto dovuto meritare molto di più. Oscurati da colleghi dal maggior successo tra il pubblico e dai discografici che chiedevano a Borland una musica rivolta alle masse, canzoni più orecchiabili e commerciali, quello che non gli è stato riconosciuto nel periodo di attività (tra il 1979 e il 1988), gli sarà invece restituito soltanto con l’avvento del post punk revival di inizi anni duemila, con band come Interpol e Bloc Party che tanto devono al quartetto inglese e che hanno permesso di riscoprire o scoprire per la prima volta la musica dei The Sound. “Jeopardy” è l’album di debutto ed è di una bellezza a dir poco disarmante. Ma il suo successore non è da meno, laddove sembrava quasi impossibile pareggiare con l’esordio che contiene tracce memorabili e ad effetto come Missiles e I Can’t Escape Myself. 46 minuti di limpida e cristallina estasi post punk, vitale e crudele. “From The Lions Mouth” è un lavoro atmosferico, intimo, sofferente, ancora più introspettivo del suo predecessore e sembra quasi di riprendere ad ascoltare lì dove “Unknown Pleasures” dei Joy Division si era interrotto. Ma con la personalità di Borland e l’identità dei The Sound, il risultato che ne esce è quello di un mondo a sé stante, che la critica ha apprezzato ma sempre in modo contenuto e che la folla ha invece tristemente ignorato. Un fulmine a ciel sereno. “From the Lions Mouth” è eleganza, è ribellione, è delicatezza, ti cambia l’umore e penso anche la vita. Perché non potrai più farne a meno.
Forse i più rappresentativi dell’ormai passata nuova ondata di post-punk che va dal 2017 al 2021 circa. Quella che noi stiamo vivendo ora, nel momento esatto in cui scrivo, ha già una nuova pelle e va benissimo così, è giusto che lo sia. Ma gli Idles continuano ad insinuarsi prepotentemente nelle mie orecchie e nel mio portafoglio ogni volta che tornano in Italia e non si può prescindere dal disco che ha cambiato le loro sorti e quelle dell’Inghilterra: “Joy as an Act of Resistance” è il figlio un po’ ribelle e controcorrente che tu che leggi sarai sicuramente stato e a cui, anche per questo, noi tutti figli un po’ ribelli vogliamo molto, molto bene. Può un disco essere punk e socialista allo stesso tempo? La risposta è sì e la band di Bristol ce lo dimostra. Vulnerabilità, mascolinità tossica, attacco ai potenti e ai più ricchi, attacco alla società che ci vuole omologati, riconoscimento di se stessi e accettazione per ciò che si è, immigrazione, politica, sono solo alcuni dei temi presenti nei testi degli Idles, che in questo vanno a braccetto con il duo britannico Sleaford Mods. Il punk dei Sex Pistols era anarchico, quello degli Idles è impegnato e schierato dalla parte dei più deboli e tutta la rabbia e le nevrosi di questi tempi maledetti vengono ingabbiate nelle note e nei testi della band. Never Fight A Man With A Perm e I’m Scum sono alcuni dei titoli che risaltano agli occhi e che vogliono risvegliare le coscienze dell’essere umano, sempre più essere e sempre meno umano. Con il carisma di tutti i membri e in particolar modo del frontman Joe Talbot, gli Idles esportano – ovunque essi vadano – una gigantesca dose di adrenalina post-punk nel suo aspetto più hardcore. E ci piace, eccome se ci piace.
Sfido chiunque a trovare un album dal 1982 ai giorni nostri che ha l’inizio di “Pornography“, con una One Hundred Years sul piede di guerra,che recita “It doesn’t matter if we all die”. I The Cure rappresentano un pezzo di storia della musica tutta e “Pornography” il disco che segna la fine della prima era della band, un’era cupa, triste, gotica, piena di eccessi, di disperazione, di depressione e solitudine. Robert Smith e soci sono ai limiti della sopportazione psicologica e questo album ne è la prova. Ma ne esce un vero e proprio capolavoro. E non sarà il solo, per i Cure. I precedenti “Seventeen Seconds” (1980) e “Faith” (1981) sono solo il preludio del nichilismo che avvolgerà questo lavoro, che contiene alcuni dei momenti più alti dell’intera carriera della band britannica, come The Hanging Garden o The Figurehead. Una discesa nella tenebrosa dimensione del dolore, della dipendenza, dello smarrimento, che porterà la band ad un periodo di pausa dopo vari litigi e aprirà le porte ad una nuova fase dei The Cure, che però non ci è dato approfondire qui e ora. “Pornography” è un disco che rappresenta alla perfezione l’aspetto più gotico del post-punk e noi saremo sempre immensamente grati a Smith & co. per avercelo donato.
Il più anticipatore tra gli anticipatori: “Marquee Moon” dei Television è stato il primo disco a dare forma al post-punk per come lo intendevamo 40 anni fa e per come lo intendiamo oggi. Dalla discografia scarna (solo tre album), in cui i successori non hanno mai raggiunto la fama del disco di debutto, i Television di “Marquee Moon” sono stati visionari precursori, in un anno (il 1977) in cui sarebbe esploso su ogni fronte il fenomeno del punk. All’interno del disco ci sono vere e proprie lezioni di musica, negli originali riff di chitarra e nell’assordante calma di basso e batteria in contrasto con i ritmi pesanti e frenetici del punk rock. Purtroppo Tom Verlaine, leader dei Television, ci ha lasciati a gennaio di quest’anno, e con lui se n’è andato un pezzo di storia. Ma “Marquee Moon” continua a scorrere nel nostro cuore e a riecheggiare nella nostra anima, perché solo un disco del genere è riuscito a cambiare in questo modo le sorti della musica rock.
“Il loro miglior album, una pietra miliare di un’intelligente art punk, deliziosamente trattato con molti Enoismi, e un terrore di fondo fatto di paranoia e alienazione urbana” – da un commento di uno sconosciuto su YouTube. Ecco descritta perfettamente in poche parole la musica di “Fear of Music“, terzo album in studio del quartetto statunitense che ha rivoluzionato l’intero codice della musica rock, influenzando diverse generazioni di musicisti, dai Radiohead ai Franz Ferdinand, dagli anni ‘80 fino ai giorni nostri. Ora, che sia il loro miglior album io lo metto in dubbio, in quanto il successivo “Remain In Light” può essere considerata la vera e propria pietra miliare del gruppo, un capolavoro che va al di là del tempo e che rappresenta la forma più evoluta del suo predecessore. Ma “Fear of Music” è un grandissimo lavoro più vicino al post-punk di quanto lo sia il suo successore e per questo, meglio collocato in questa classifica. Prodotto da Brian Eno (che produce anche il precedente album dei Talking Heads e il già citato “Remain In Light“), il disco presenta forti e chiare influenze afrobeat, di musica tribale, disco-music e disco-funk, il tutto costantemente posseduto da un’aura psichedelica che lo contraddistingue dal resto. Il 1979 è forse l’anno centrale e di svolta per il post-punk, perché “Fear of Music” esce tra “Unknown Pleasures” dei Joy Division (giugno) e “Metal Box” dei Public Image LTD (novembre) e questi tre album sono il manifesto del post-punk al suo apice.
“This is how post-punk feels like, that mystic, evil, perverse, serious and elegant feeling is what I mean” da un commentoa caso sotto un live del 2003 degli Interpol su Youtube. Se chiudo gli occhi, torno indietro nel tempo con una serie di album che mi hanno in qualche modo cresciuta e distaccata dal resto del pianeta terra, per entrare nella mia testa e non uscirne più. Ecco, “Turn on the Bright Lights” degli statunitensi Interpol è uno di questi. Una band che agli inizi del duemila ha fatto parte della prima ondata di post-punk revival di cui, a detta di molti, fanno parte un’accozzaglia di band che, secondo il mio parere, c’entrano in realtà ben poco. Diciamo che tutto quello che è uscito tra il 2001 e il 2007 è stato confuso, rinominato, mescolato. Per far prima, si consideravano gruppi come Interpol, Bloc Party, The Strokes, Arctic Monkeys in un unico calderone chiamato indie rock, che voleva dire tanto e poco, insieme. C’erano delle differenze sostanziali tra un gruppo e l’altro; c’era chi aveva sonorità che si avvicinavano più all’alternative, chi più alla dance, chi più al rock, chi più al garage ed infine, chi più al post-punk. Gli Interpol, con il loro esordio, rientrano soprattutto nell’ultima categoria. Il debutto è un debutto coi fiocchi, di quelli che si può annoverare come tra i migliori esordi degli anni duemila e che non si ripeterà più nel tempo, per il gruppo in questione. Ma questa è un’altra storia e noi vogliamo soltanto celebrare una tipa di nome Stella che era una sommozzatrice ed era sempre giù – letteralmente Stella was a diver and she was always down – uno dei momenti più alti dell’album, nonché il brano più lungo. Riff ipnotici viaggiano tra oscurità e luce, e vanno ad intrecciarsi con il timbro cupo del frontman Paul Banks, in una scalata emotiva che non lascia indifferenti, di brano in brano. “Turn on the Bright Lights“ è uno degli album più rappresentativi, se non IL più rappresentativo, di quel revival tanto apprezzato dai millennials che oggi, un po’ cresciuti, si chiedono perché mai gli Interpol non abbiano più mantenuto quei livelli.
“I Sex Pistols cantavano <<No future>>, invece un futuro esiste e noi stiamo provando a costruirlo”- Allen Ravenstine, Pere Ubu, 1978.
Con l’album di debutto “The Modern Dance“, i Pere Ubu hanno rivoluzionato il mondo di tutta la musica di fine anni Settanta. Sullo sfondo c’è Cleveland, c’è l’industrializzazione, c’è il declino del punk. David Thomas, voce dei Pere Ubu, trova che i Sex Pistols siano puerili in quello che trasmettono con la loro avversione e ribellione. Non è quello lo scopo a cui la band statunitense mira. Musicisti eclettici, avanguardisti e sperimentatori, con “The Modern Dance” i Pere Ubu scardinano le regole di molti loro contemporanei e il risultato è straordinariamente sorprendente: un album stravagante, bizzarro, psichedelico ai massimi livelli, alienante e futurista. Alla stregua del debutto dei DEVO, quello della band di Cleveland è stato uno dei primissimi lavori a spianare la strada sia al post-punk che alla new wave, ma a differenza dei DEVO, i Pere Ubu hanno saputo continuare la loro opera rivoluzionaria senza mai scendere a compromessi, fino ai giorni nostri. E “The Modern Dance” è un capolavoro indiscusso.
Combattuta, ancora una volta, su quale album inserire. Alla fine la mia scelta è ricaduta sul terzo album in studio e non è stato semplice. Ma non mi pento affatto di aver messo dentro il mastodontico “The Agent Intellect“, che nel 2015 – proprio in contemporanea ai “colleghi” Preoccupations- consacrava ufficialmente la band di Detroit come una delle migliori band post-punk degli anni duemila, a mani basse. Innovatori in tutto e per tutto, pur mantenendo l’identità del genere musicale a cui si legano. Brani come Why Does It Shake (consiglio la performance del 2015 del Tiny Desk) infrangono ogni possibile regola e, proprio per questo, risultano essere dannatamente punk, almeno spiritualmente. L’intero album è diretto, forte e colpisce dritto. Come le parole di Joe Casey, che ha l’attitudine di uno a cui non frega proprio di niente e di nessuno. I Protomartyr fanno musica. E continuano ad occupare un posto nell’olimpo dei migliori della scena odierna.
Chi non ha mai ballato, cantato, immaginato drammi a non finire sulle note di una qualsiasi canzone dei The Smiths? Alzi la mano chi è colpevole, perché è una lacuna che va immediatamente colmata. Nel 1984, quando il post-punk era in evoluzione ormai da almeno un paio d’anni e veniva dirottato su traiettorie differenti, il quartetto di Manchester, sotto l’etichetta indipendente Rough Trade Records, esce con l’album di debutto dal titolo omonimo al nome della band. Si contraddistinguono subito nella scena per i suoni più pop e per le atmosfere meno cupe e dark rispetto a quello che girava all’epoca, dai The Cure ai Siouxsie and the Banshees, e tutt’oggi, spesso, i The Smiths vengono (inutilmente) messi in opposizione ai Joy Division: i primi rappresentano la parte pop e “allegra” – solo per sonorità e non di certo per i testi – del post-punk, i secondi invece racchiudono la parte più oscura e criptica del genere. L’esordio è scioccante, spiazza l’Inghilterra che inizialmente non comprenderà a pieno l’enormità di quello che ha davanti. I testi di Morrissey sono crudi, cinici, sono storie di violenza, di abusi, di solitudine, su melodie che trasmettono invece l’esatto contrario. I giri di basso di Andy Rourke e la batteria di Mike Joyce, con la chitarra di Johnny Marr che fa sempre da protagonista e la voce nasale di Morrissey, che intona testi decadenti e disincantati, hanno conquistato milioni di persone. Anche se due anni dopo “The Queen Is Dead” li consacrerà nella storia della musica, il loro debutto resta un grandissimo album da riscoprire e riassaporare.
Da Liverpool si fa un salto verso la luce con gli Echo & The Bunnymen. Riprendendo le atmosfere più dark del post punk, il quartetto inglese ne stravolge il significato, accostandosi a sonorità più pop, meno buie e angoscianti. Ascoltando il secondo album “Heaven Up Here” è un po’ come se si facesse un balzo temporale alla fine degli anni Sessanta, con una leggera psichedelia a fare da contraltare tra il mondo pop e quello post punk più minimale, ma non meno complesso e non meno rilevante. Influenti soprattutto nella scena della neo psichedelia e del rock anni ‘80, gli Echo & The Bunnymen di “Heaven Up Here” meritano di essere collocati in un posto speciale di questa classifica.
Non è una band ma un progetto dietro cui c’è un solo nome, quello di The Soft Moon. Il nome in questione è Luis Vasquez, musicista, polistrumentista, cantante, cantautore, produttore e tanto altro ancora. Nel 2010 debutta con l’omonimo album “The Soft Moon”, che cattura l’attenzione della critica americana e non solo. Intriso di atmosfere e sonorità anni ‘80, esce dai chiaroscuri industrial e gotici, con scariche elettro-darkwave, tant’è che sembra quasi che i Bauhaus si siano uniti ai Joy Division per dar vita ad una creatura degli anni duemiladieci volta a ricreare perfettamente lo stesso ambiente, lo stesso clima ma con melodie e soluzioni differenti, che si adatta agli anni in cui vive e opera. Uno dei pochissimi dischi – se non l’unico – di quel 2010, ad aver dato nuovamente respiro ad un genere musicale che si era un po’ perso. Anche per questo, gli va dato tutto il valore che merita.
Ascoltare per la prima volta “Y” ha un effetto maggiore dell’assumere sostanze psicoattive. Un viaggio profondamente e piacevolmente allucinogeno, che non ha come componente principale il post punk. Rappresenta una miscela- probabilmente la più potente e provocatoria della storia del genere- di sonorità funk, dub, jazz, afro, punk. E così, a soli 19 anni, Mark Stewart si ritrova a capo di una rivoluzione musicale dallo stratosferico impatto, che forse mai avrebbe immaginato. Rivoluzione musicale e anti capitalista, nello spirito militante che pervade l’intero disco, soprattutto con brani come Blood Money e Don’t Call Me Pain. Lo stesso Stewart dice: “Non ci bastava essere vivi, volevamo disfarci di tutte le repressioni. Avevamo l’idea romantica di tuffarci nel nichilismo, quell’intenso processo di decondizionamento, e riemergere dall’altra parte con qualcosa di davvero positivo”. Il 1979 è l’anno di “Unknown Pleasures” e “Metal Box“, come di tanti altri album che sarebbero diventati eterni, e in questa cornice “Y” dei “Pop Group” è una voce fuori dal coro, alternativa e distorta, polemica e dirompente. Nonostante ebbe reazioni contrastanti di critica e pubblico, il quintetto di Bristol era molto apprezzato dai suoi colleghi, che ne lodavano spesso l’audacia nelle sperimentazioni e la capacità compositiva. Soltanto nel corso degli anni la loro influenza nel mondo del post punk ma anche della musica “meno bianca” è stata riconosciuta e compresa. Il corpo di Mark Stewart ci avrà anche lasciati, ma la voce di “Y” resta scritta nella storia e impressa nelle nostre orecchie.
Avevo 14 anni circa quando ho ascoltato per la prima volta un pezzo dei Joy Division. Ero del tutto ignara dell’impatto che avrebbero avuto nella mia crescita, nel mio modo di ascoltare musica e di percepire il mondo. Ian Curtis rappresenta tuttora, nell’immaginario collettivo, un’icona quasi fittizia, illusoria, come un mito che in realtà non è mai esistito. Di fatto, è vissuto poco. Ma il testamento che ci ha lasciato con i Joy Division, in soli due album, ha valore inestimabile che però cresce giorno dopo giorno, anno dopo anno, e non c’è un attimo della mia esistenza in cui io non mi chieda: “Chissà quanto altro avrebbe avuto da dire, da suonare, da scrivere. Chissà se il tour americano/canadese mai avvenuto, avrebbe portato gioie o dolori alla band. Chissà cosa farebbe oggi, ultra sessantenne, se solo avesse avuto modo di combattere e di guarire. E chissà…sì, chissà”. C’è poco da dire che non sia già stato detto. Ci troviamo di fronte ad uno degli album post-punk per eccellenza, nonché uno dei migliori album della storia della musica, una pietra miliare imprescindibile per chiunque. I giri di basso di Peter Hook hanno fatto scuola a tutti e i testi cupi di Ian Curtis hanno rappresentato una vera e propria corrente culturale e poetica. Questo debutto è il frutto di 3 anni di prove, EP, live nell’ambito underground, l’incontro con Tony Wilson della Factory Records, finché nell’aprile del 1979 viene registrato e…il resto è storia.
Dell’ondata pandemica possiamo trascinarci dentro molteplici cose brutte e negative. Una delle pochissime note positive, è stato sicuramente il salto di qualità di gruppi come gli shame. Una band composta da cinque ragazzi, poco più che ventenni, che dall’esordio “Songs of Praise“ (2018) al successivo “Drunk Tank Pink” (2021) si è saputa adattare e trasformare, complice una maturità artistica e umana su cui ha indubbiamente influito la pandemia. Il risultato è un album nero e rosa, che gioca su contrasti di ogni tipo. Dalle sfuriate di Great Dog e Harsh Degrees alle suggestioni evocative della combo Snow Day/Human, for a Minute, messe una dopo l’altra a ricordare che ci troviamo di fronte ad una band che ha sì, più volte ammesso di avere nel cuore The Fall, The Stooges, Billie Holiday, Tom Waits e via discorrendo, ma che è riuscita, a 3 anni dal debutto, a piantare radici forti e stabili nel territorio post-punk odierno. Valore aggiunto: sono una band che trova la più ampia e potente dimensione quando è sul palco.
Goth e post punk. La miscela preferita da band come Siouxsie and the Banshees, Cure e Bauhaus. E proprio questo trio rappresenta una sorta di santa trinità dai cui magnetici sguardi è pressoché impossibile sfuggire. Ho sempre associato Peter Murphy ad un personaggio tanto oscuro ed impenetrabile, quanto sensibile e sognatore. Le foto che lo ritraggono con la sua band in bianco e nero hanno il sapore di un imponente castello all’interno di un romanzo gotico, che rappresenta al tempo stesso fortezza e prigione, certezza e titubanza. “Mask” non è un disco perfetto, né superiore a certi altri suoi contemporanei, ma The Passion of Lovers, Of Lillies and Remains, Hollow Hills (tra le tracce più belle dell’intero album) hanno lasciato solchi indelebili sia in quegli stessi anni, che nell’epoca che stiamo vivendo oggi. Direi che è proprio il caso di dirlo: lunga vita ai Bauhaus.
Non il mio preferito di James Murphy e forse il disco che c’entra meno in questa classifica. Attinge dal post punk, dalla new wave, dalla dance, dall’elettronica, e nel 2005 – anno di uscita – è stato un getto di acqua gelida, rinfrescando menti e corpi invasi dalla spossatezza e dal “già sentito”. Di certo questo debutto della one-man band LCD Soundsystem è un chiaro omaggio a Kraftwerk e Talking Heads (per citare giusto due colossi), ma mescola e aggiunge muri di influenze, ritmi danzerecci, estrosi ed ossessivi e sperimentazioni elettroniche. Ne esce fuori un disco diviso in due parti che in totale dura ben 100 minuti, in cui le hit di maggior successo (Daft Punk Is Playing at My House, Losing My Edge) sono alternate a tracce meno memorabili, ma d’altronde non poteva essere un lavoro perfetto, pur restando un esordio di forte impatto. A proposito del brano Losing My Edge, lo stesso Murphy dice: “Quando facevo il DJ suonavo Can, Liquid Liquid, ESG, tutto quel genere di cose, e per un momento sono diventato piuttosto figo, il che è stata un’anomalia totale. Quando ho sentito altri DJ che suonavano musica simile alla mia, mi sono detto ‘Cazzo, non ho più un lavoro! Quelli sono i miei dischi!’ ma era come se qualcuno si fosse insinuato nel mio cervello e avesse pronunciato tutte queste parole che odio. ‘Ho fatto dei dischi? No’ così ho iniziato ad essere inorridito dal mio stesso atteggiamento. Ho avuto quel momento di gloria, in cui la gente pensava ‘è lui, il tipo cool che mette dischi rock’ ed era davvero strano. Ad essere onesto, avevo timore che tutto questo svanisse ed è da qui che nasce Losing My Edge. Si tratta di essere inorridito dalla mia stessa frivolezza. E poi è diventato qualcosa di più ampio, sulle persone che si appropriano delle creazioni altrui, spacciandole per proprie. C’è comunque qualcosa di più profondo in quel carattere e in quell’atteggiamento, qualcosa che appartiene all’inadeguatezza e all’amore”. E allora suoniamo e balliamo insieme a James Murphy e ai Daft Punk, in un mondo parallelo in cui esiste solo musica “cool”. Come quella, per l’appunto, di LCD Soundsystem.
Uno dei gruppi più influenti del punk e del rock (sia separati che uniti), tanto amati da Nirvana e Melvins, i quali a ritmo di cover gli hanno voluto rendere omaggio più volte, sia sui palchi che in studio. Lo stesso Cobain sosteneva che la band di Portland avesse dato il via al così detto Seattle Sound, con ben 15 anni di anticipo. Dunque, essenziali anche per la nascita del tanto caro e discusso grunge, solo che loro ancora non lo sapevano. “Youth Of America” è il secondo disco del trio statunitense e contiene solo sei brani, feroci e solidi, a partire dalla traccia di 10 minuti che dà il titolo all’album, Youth Of America, attraversando i confini di una new wave decisamente punk con una quasi strumentale When It’s Over che chiude uno straordinario, allucinogeno, sofferente album a piene tinte post punk. I Wipers hanno aperto le porte del grunge e non solo, ed è assurdo come siano spesso dimenticati o non menzionati per la loro influenza e per la loro importanza. Noi, dal canto nostro, lo facciamo eccome.
Tutine gialle da addetti alle pulizie e occhiali che entrano in competizione con quelli dei Kraftwerk, movenze schizzate a tempo di musica, idee e scenografie che provengono dal futuro, titoli dei brani che sembrano quasi demenziali ma i cui testi denunciano l’involuzione dell’uomo, attraverso una pungente satira incentrata sulle debolezze umane, l’avidità, la violenza, l’ignoranza, il sesso. Brani come la hit Mongoloid, Jocko Homo o Gut Feeling ne sono il tipico esempio. L’essere umano subisce un processo di regressione e i DEVO sono i portavoce di questa cosiddetta De-Evolution. Prodotto da Brian Eno, l’album apre le porte alla nuova corrente di new wave, con attitudine punk ma anche pop, un po’ alla Buzzcocks. La follia e l’originalità della band agli esordi è impressionante, di quei tempi. E questo disco va obbligatoriamente custodito e preservato.
Il debutto delle londinesi Savages mi ha colpito sin dal primo ascolto. Come se mi fossi innamorata per la prima volta della musica. Sì, lo so, sarò anche esagerata ma certe band ti entrano nel cuore in determinati periodi della vita e queste quattro ragazze hanno fatto breccia nel mio cuore con la loro grinta, la loro attitudine e il loro talento. Se ne leggono di ogni e io direi che è il caso di iniziare a lasciar perdere i soliti ed evidenti paragoni con i Siouxsie and The Banshees, oltre ai classici di Joy Division, Bauhaus, Gang Of Four. Sappiamo benissimo che il post punk viene anche da lì, infatti le Savages non hanno inventato nulla di nuovo. Ma trovatemi un quartetto tutto al femminile che ha miscelato un post punk sicuramente canonico con energiche scariche post hardcore e sane dosi di noise dagli istinti a tratti primordiali? Nel 2013 non circolava nulla del genere, nulla che riportasse in vita l’Inghilterra di 35 anni prima così fedelmente. Anche nelle tematiche, che qui si fanno più aggressive a causa di un mondo moderno corrotto e degradante, che premia la superficialità e porta a frustrazione, infelicità e alienazione. Poco da temere, però. C’è il grido di Jehnny Beth e co. a redimerci.
Lo ammetto. Sono una di quelle persone che fino a poco tempo fa non voleva riconoscere l’importanza di una band nata dalle ceneri di un’altra band che in appena due anni ha scritto la storia. Ebbene sì, sono colpevole. Ma ho capito i miei errori quando ho smesso di limitarmi ad ascoltare solo Blue Monday e Bizarre Love Triangle e sono ripartita dalle basi, da dove tutto era finito e da dove un nuovo capitolo era cominciato. Smarrimento e tristezza hanno inizialmente colto i tre membri rimasti dei Joy Division dopo il suicidio di Ian Curtis. E questa malinconia dalla vena fortemente dark rispecchia il primo album dei New Order, a metà tra “Unknown Pleasures” e “Closer“, ma sono anche i The Cure dei primi tre dischi a riecheggiare. I New Order, dopo l’ingresso di Gillian Gilbert alle tastiere e alla chitarra, prendono in mano appunti e bozze di Curtis e si mettono praticamente subito a lavoro per esorcizzare la tragedia. Ed è un po’ come se “Movement” fosse sia un omaggio che una continuazione (e di fatto lo sono) di quello che il compianto leader aveva lasciato. Sarà con il successivo album “Power, Corruption & Lies” che i New Order definiranno il loro sound e la loro natura, d’impronta meno dark e con un maggior utilizzo di sintetizzatori, tra synth pop, new wave ed echi di un non ancora lontano post punk. Anche la voce di Bernard Sumner cambia. Se in “Movement” era come se il fantasma di Ian fosse lì con loro come quinto elemento, nel secondo disco le atmosfere sono più vivaci, danzerecce, sorridono. Forse scelgo “Movement” per familiarità e similitudini con i Joy Division. Una ferita aperta che si rimarginerà (seppur con fatica) e che cambierà mille volti, sotto il segno di tre straordinari musicisti che hanno saputo reinventarsi e scrivere la storia della musica per una seconda volta.
Dalla mia poca cultura in fatto di musica italiana (mea culpa), i CCCP sono sempre stati l’eccezione. Senza entrare nel merito di vicende private, pubbliche, politiche, vicende che sono seguite allo scioglimento dei CCCP e alla nascita dei CSI, a dichiarazioni, provocazioni, foto compromettenti e battute del tutto infelici che nel corso degli ultimi 30 anni hanno avuto tristemente luogo, credo che non si parli più abbastanza dell’importanza che questo gruppo ha avuto nella storia musicale dell’Italia, da quella new wave a quella cantautoriale. Basterebbe, ogni tanto, rimettere su questo disco. E questo album, da solo, basta a rappresentare un inno, una generazione, un movimento.
Band passata per qualche strano motivo in sordina, i Glaxo Babies, con la loro raccolta “Dream Interrupted” e in particolar modo con l’EP di debutto This Is Your Life, hanno fortemente lasciato il segno nella prima era post-punk. Originari di Bristol, mescolano influenze funk, jazz, r&b, al mondo punk. E quello che ne esce è sensazionale. Non un vero album, per l’appunto, ma una raccolta del primo materiale della band, “Dream Interrupted” è un caposaldo del genere e se ancora non l’avete mai ascoltato beh, rimediate ora.
La parabola ascendente dei Cabaret Voltaire ha inizio proprio da “Red Mecca“, il primo vero album del trio dadaista di Sheffield a portare in scena una forma di ritmo non più astratta, ma concreta. Ed è da qui che comincia la seconda fase della carriera dei Cabaret Voltaire, dopo i primi esperimenti sonori che posero le basi per lo sviluppo della musica industrial (insieme ai Throbbing Gristle). Il trio è nel pieno della sua maturità sonora e artistica. Sperimenta, assembla pezzi di synth con il funk, beat elettronici con una new wave minimale che nei successivi album prenderà pieno potere e controllo. Brani come Red Mask e Black Mask sono ballate dark opprimenti e claustrofobiche, due facce della stessa medaglia: una più noise che nei ritmi quasi rimanda ai Joy Division di She’s Lost Control (con i quali hanno condiviso il palco più di una volta) e l’altra dall’animo più funky, che trascina e seduce, in cui le linee di basso diventano protagoniste indiscusse di tutto il brano. Seppur non si tratti di un album puramente post punk (ricordiamo che nel post 1980 è difficile trovare lavori non contaminati da altre culture e altri generi, ancor più che nel pre ‘80), al suo interno racchiude elementi tipici di quel genere e la sensazione che si ha ascoltando un album come “Red Mecca” è proprio quella di essere in un’epoca di transizione, quella del mondo new wave. “Ian Curtis era un grande fan dei Cabaret Voltaire e avrebbe voluto registrare nei nostri studi. Forse in segno di rispetto, i New Order vennero davvero a Sheffield a provare del materiale in studio: una parte finì su Movement. Ci influenzarono, e mi permetto di dire che anche noi li influenzammo un po’ ”. Tra progetti solisti, scioglimenti, ricongiungimenti, la band ha sfornato altri incredibili album come “The Crackdown“ (1983), “Micro-Phonies” (1984), “The Living Legends” (1990), segno dell’irrefrenabile creatività del trio che mai ha spento la propria vena sperimentale, almeno finché è esistito.