1. aurora rising
2. borealis dancing
3. burning grey
4. the mountain
5. baba louie
6. bolinko bass
7. and kuma walks
8. take over the world
9. world war ((reprise))
Eccoci qui Jaimie. Più o meno esattamente un anno dalla tua morte. Eccoci qui con il disco postumo, l’ultimo, in tutti i sensi. L’ultimo “Fly or Die” della serie. Purtroppo non hai volato e sei morta. O forse sì, non sei morta, sei solo volata via. “Overdose accidentale”, a soli 39 anni. Che altro c’è da dire? Una volta si sarebbe detto che questo è il destino dei grandi artisti: talento e sofferenza. In realtà è solo il destino dei dannati. Un destino da schifo, in quello che per loro è un mondo da schifo.
Avevi troppe idee Jaimie. Ed erano urgenti, immediate. A volte facili da comprendere, a volte partivi per la tangente. Ed è ancora così, in questo “ultimo” disco. Ci volevi far ballare, cantare, riflettere. Ci volevi stordire, con la tua tromba. Con i tuoi ritmi indiavolati; con i tuoi inni, cantati e gridati. take over the world è un esempio perfetto di quanto sto dicendo. Nella tua speciale “fusion eclettica” c’è tutto, mischiato al jazz. Il punk, lo psych-rock. Così come la musica latina che senti in baba louie. Il funk di borealis dancing e il free di and kuma walks. E sono solo esempi. Ma sopra a tutto c’è la tromba che piange, singhiozza, urla. Una tromba che è la tua voce, Jaimie. Una voce blues, non estranea alle scale e alle note della musica del diavolo.
“Fly or Die Fly or Die Fly or Die ((World War))” è l’ultimo disco di Jaimie Branch fatto e finito nell’estate 2022, poco prima di lasciare all’improvviso e “accidentalmente” questa valle di lacrime. E’ bellissimo e forse la sua opera migliore. Il discorso è sempre quello dei precedenti “Fly or Die” e quindi lo conoscete, o se non lo conoscete sarebbe meglio che vi fate una cultura, altrimenti perché mi state leggendo. Non c’è nulla che ci autorizzi a rintracciare in questa opera finale i prodromi di una tragedia che non ha alcun senso, se non quello di un’autodistruzione che, probabilmente, chi la pratica pensa sempre che non sarà totale, com’è invece è stata in questo caso.
Quali demoni, quali fantasmi possono essere nel cuore e nella mente di un’artista per annientarsi così, per giocare così tra la vita e la morte? Dopo avere fatto tanta musica che celebra la vita? E tanta ce n’è anche in questo disco, su quella nota di cauto vitalismo e disperata gioia in cui Jaimie era tanto brava, vedi burning grey. C’è pure la cover bluegrass-country dei Meat Puppets: the mountain, con la tromba che suona l’assolo dopo le parti vocali. A riprova di una visione musicale completa che non si pone limiti.
In un’epoca musicale in cui va di moda fondere generi, attraversare steccati e mescolare tutto, Jaimie Branch lo faceva senza concedere nulla all’accademia e senza concedersi per niente al mestiere. Lo faceva senza risparmiarsi, senza centellinare energie intellettuali e artistiche. Avendo come solo orizzonte una sua visione, quale che fosse, che a qualcosa sicuramente anelava. In un volo che ci sarebbe piaciuto avesse potuto continuare ancora a lungo. Non è giusto, viene sempre da dire in questi casi. Ma cosa c’è di giusto in un mondo che vede nascere qualcuno come Jaimie, le mette una tromba in bocca all’età di nove anni e le concede solamente tre decadi per cantarci e suonarci il suo blues?
Grazie ancora all’International Anthem per avere dato una casa al suo talento e per curarne l’eredità che, speriamo, sarà riconosciuta negli anni nelle prossime storie del jazz e della musica tout-court.
I want them to know that I mean every note that I play
Jaimie Branch (17-6-1983/22-8-2022)