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Corey Taylor – CMF2

2023 - Decibel Cooper / BMG
hard rock

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Tracklist

1. The Box
2. Post Traumatic Blues
3. Talk Sick
4. Breath of Fresh Smoke
5. Beyond
6. We Are the Rest
7. Midnight
8. Starmate
9. Sorry Me
10. Punchline
11. Someday I’ll Change Your Mind
12. All I Want is Hate
13. Dead Flies


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You talk shit to me”, urlacchia Corey Taylor in Talk Sick, terzo estratto da quello che, secondo il frontman degli Slipknot, dovrebbe essere il suo “discone”, quello spiazzante, che lascia tutti a bocca aperta. Per forza ci tocca “talking shit”, caro numero 8.

Quello che ormai potremmo definire ex-mostro micidiale a capo dei 9 dell’Iowa (più o meno, dato che quel posto sarebbe del numero 6, ma ci siamo capiti), è ex a ragion data, perché non spiazza nessuno, non smuove nulla e non fa nient’altro che ripetere una formula trita e ritrita negli Stone Sour già da un pezzo. Il perché si ostini a dividere la carriera solista e quella della sua “altra band” non è ancora chiaro, quantomeno non a me, ma era un dubbio che già esponevo in sede di recensione del primo “CMFT”, che, come si evince, non è poi tanto diverso dal suo successore, intitolato senza un briciolo di fantasia “CMF2”.

Come ogni buon sequel che si rispetti, soprattutto alle latitudini a Stelle e Strisce, non fa che ripercorrere strade già ampiamente battute, rimestando nel torbido, per essere un attimo gentili e non scadere nel triviale. A Corey non manca di certo la voce, colpito da una sindrome di Peter Pan assolutamente fisica che sembra voler benedire le sue corde vocali ad libitum, quello che gli manca, a mio modesto parere, è quella che in gergo assolutamente tecnico viene definita come “cazzimma”, ovvero quella componente di sfrontata potenza propria di ogni cantante/compositore rock che si rispetti. Ma come?, direte voi, questo è pur sempre quel Corey Taylor, quello di, e di, e pure di. E invece no, ma anche sì. Sbrogliamo la matassa.

Va da sé che non ci si può, né ci si deve, aspettare che un artista di questo tipo resti “quello dei primi tempi”, magici, virulenti e incazzati allo sfinimento, sarebbe improbo e pure un poco ridicolo, ma da qui a scialacquare il talento ne passa. Eppure si può fare (gridatelo pure imitando Oreste Lionello/Gene Wilder/Dottor Frankenstein), a partire dall’immaginario dozzinale simil-glam rock che investe tutta l’operazione. Che al Nostro il genere piaccia non è più tutto ‘sto mistero, che tenti di renderlo suo nemmeno. Farlo bene è un conto, farlo male tutt’altro. Lui riesce in quest’ultima impresa. Meno interessante del look a metà strada tra il piratapunk uscito fuori dalle scene tagliate di “Hook” e uno Zio Sam straccione del video di Beyond c’è solo la canzone stessa (pure la migliore di tutto il lotto, per dire), flebile tentativo di recuperare un rock novantiano le cui braci sono spente da un pezzo e un ritornello piacevole non fa una buona canzone, a maggior ragione se coronata da assoli di fattura mediocre, se non proprio infima (e non parlo di tecnica, che cazzo ce ne frega di quella?).

Questi sterili esercizi di stile a sei corde perfetti per la peggior programmazione di Virgin Radio si abbattono come una fastidiosa pioggia acida su tutti i brani o quasi: introducono Post Traumatic Blues (strofa stonesouriana a.d. 2002, ritornello vent’anni prima, una combinazione ben poco funzionante), spuntano come funghi nella già citata Talk Shit, peggiorano We Are the Rest, che pare una cover dei Velvet Revolver confezionata per lo Zecchino d’Oro arricchita, per così dire, dalle peggiori gang vocals degli ultimi vent’anni, affiancano i riff evidentemente scartati da “Come What(ever) May” di Punchline e via discorrendo.

Se da una parte l’impianto “rock” è tutto tranne che ben messo, dall’altro c’è quello balladaro che affonda ancora di più nelle torbide acque dell’approssimazione, del ritrito e anche di una chiara difficoltà nel trasmettere ciò che si vorrebbe. Non vibra niente sulle corde di Sorry Me, che si vorrebbe struggente ma finisce col risultato di 10-0 per la stucchevolezza ma ancor peggio fa Breath of Fresh Smoke: se chiudete gli occhi durante l’ascolto vi ritroverete catapultati in un pub di camionisti dell’Arizona immersi nei gas di scarico di questi ultimi ritrovandovi vestiti come personaggi di “Duke of Hazzard”. Sono invece quelli di “Dawson’s Creek” ad apparire magicamente sulle note di Someday I’ll Change Your Mind, ed è subito diapositiva del buon Dawson che piange disperato.

C’è qualcosa di buono in questo “CMF2”? A quanto pare no (nemmeno la copertina, con quei manichini presi di peso dai reel di “AN Megastore”), forse solo che a un certo punto finisce. Due solisti per il buon Corey e nemmeno uno degno di rimanere impresso, a maggior riprova del fatto che il passato spesso non conta un cazzo e che il futuro non ha niente di interessante da riservare, nemmeno per i cavalli di razza come lui. Meglio fare la cover della sigla di “Spongebob Squarepants” alle convention nerd, a ‘sto punto. Almeno fa ridere.

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