Ci sono pochi dischi che colpiscono dritto al cuore come questo. Un tuffo nel blu, quello dipinto e quello naturale, cristallino, che riflette la propria immagine se ci si prova a specchiare dentro. Se i tre membri che hanno composto questo capolavoro senza tempo si affacciassero in quello stesso blu, si ritroverebbero davanti al futuro della musica.
Tra i pionieri del cosiddetto dream pop (termine coniato dai due giornalisti Simon Reynolds e Chris Roberts), genere sviluppatosi proprio tra la metà e la fine degli anni ‘80, hanno potuto godere dell’enorme successo di “Heaven or Las Vegas” in presa diretta, in un mondo musicale che attraversava continui cambiamenti. E proprio loro, i Cocteau Twins, sono stati i primi ad aver portato alle luci della ribalta sonorità simili, ottenendo una fama mondiale che li consacrerà come una delle più influenti band dream pop di sempre, se non la più influente in assoluto. Ad un anno dall’uscita di questo sesto album in studio della band scozzese, sarebbero comparsi gli Slowdive con il loro esordio, i My Bloody Valentine con Loveless e, successivamente, il debutto dei Lush.
Sarà un caso? Magari sì, ma di certo già nel 1984 con “Treasure” i Cocteau Twins avevano segnato le sorti della musica concependo una pietra miliare a tutti gli effetti. Un lavoro dai sapori eterei e allo stesso tempo cupi, vero precursore del genere che con “Heaven or Las Vegas” sarà ridisegnato e ricostituito nella propria più reale e più pura essenza, quella che conosciamo noi oggi. Dopo i primi due riuscitissimi esperimenti più gotici e dark, “Treasure” rivoluziona il linguaggio adottato fino ad allora dal trio, attraverso un meccanismo fatto di visioni oniriche e allucinazioni incredibilmente fantastiche e irreali. Libero e melodico, come i testi senza senso recitati e cantati dalla meravigliosa voce di Elizabeth Fraser, che gioca con parole, versi, suoni, conducendoci nel mondo incantato di qualcosa dal sapore shoegaze, etereo, vibrante, che non trova una definizione vera e propria e proprio per questo ne conserva un fascino immortale.
Il secondo apice della loro carriera arriva proprio con “Heaven or Las Vegas“, ultima collaborazione con la storica etichetta 4AD. Tra “Teasure” e questo disco passano 6 anni, altri 3 album sfornati, generi musicali che mutano e si trasformano, cambiamenti radicali nella vita della band. Elizabeth Fraser e Robin Guthrie, infatti, daranno alla luce la loro prima ed unica figlia nel 1989, esattamente l’anno prima dell’uscita di “Heaven or Las Vegas“. Nonostante la Fraser manterrà evidenti tratti della sua così particolare “glossolalia”, conferendo al disco atmosfere sognanti e celestiali nel suo modo di interpretare suoni e parole, i testi prenderanno forma, consistenza, concretezza, dedicando figure retoriche e giochi di parole proprio alla nascita della figlia dei due fondatori della band. Maggiore influenza però avrà il bassista Simon Raymonde (entrato proprio con l’album “Treasure“) che prenderà le redini della composizione dei brani a causa dei problemi di alcol e droga di Guthrie (che di lì a poco sarebbe entrato in riabilitazione), regalando all’album sensazioni tipicamente dream pop, senza se e senza ma.
Lo si può notare sin dalla traccia d’apertura Cherry-coloured Funk, una delle fasi più toccanti del disco, con la voce della Fraser che tocca corde alte e profonde, dipingendo l’universo a tinte rarefatte e, ancora una volta, sognanti. Lo si nota, di nuovo, con Pitch the Baby, il cui testo – per l’appunto – già si capisce di meno, ma non importa affatto. Resta la seconda vetta dell’album…e siamo solo alla seconda traccia. Poteva essere la terza da meno? Decisamente no. Con Iceblink Luck ci ritroviamo a condividere tutto l’entusiasmo e tutta la felicità della Fraser che ci prende per mano e scansa via i problemi, le fatiche, i momenti no.
E poi c’è lei, la magistrale title-track: Heaven or Las Vegas. “Singing on the famous street, I want to love a boy that won’t love me, Am I just in heaven or Las Vegas”. Il brano più forte, più energico, più d’impatto, con echi ad un passato meno pop, ma che paradossalmente rispecchia al meglio lo stile musicale del trio. La chiusura del disco è affidata ad una malinconica ed eterea Frou-frou Foxes in Midsummer Fires, che sfuma sul finale lasciandoci increduli e facendoci domandare come sarà il continuo. Cavalcare l’onda è difficile, ma ancor più difficile è, una volta saliti a bordo, mantenere l’equilibrio per non perdersi.
I Cocteau Twins non hanno mai sbagliato un album, seppur dopo “Heaven or Las Vegas” non abbiano più raggiunto quei livelli, neanche avvicinandocisi, ma l’onda l’hanno saputa affrontare e domare per un bel po’ di anni, dando vita ad un genere musicale che non ha mai stancato nel tempo e che oggi gode di fama soprattutto grazie ai suoi pionieri. Perché, come dire, la sognante malinconia ci piace parecchio, quella sensazione di vuoto e compiutezza allo stesso tempo, di realtà e intangibilità, che coinvolge i nostri pensieri e la nostra mente, ogni singolo arto e ogni singola fibra muscolare, oscurando tutto il resto.
E più noi ricerchiamo quelle emozioni che sembrano quasi inafferrabili, più ne abbiamo bisogno per andare avanti in questo reality show chiamato vita. E i Cocteau Twins ci ricordano che possiamo ancora provare empatia verso noi stessi e verso il prossimo con uno degli album più belli ed emozionanti degli anni Novanta.