1. Embers
2. Last Word
3. Beneath the Rose
4. Choir
5. The Dirge
6. Anodyne
7. Shine
8. Magnolia
9. Under the Wheel
10. Bloom
20 anni di Baroness e non sentirli: la creatura di John Dyer Baizley li festeggia col sesto disco di una creatura in continua evoluzione, quello che potrebbe in termini retorici essere definito ‘il disco della maturità’, ma che è più semplicemente la conseguenza del completato affiatamento tra le risorse che sono andate a entrare a far parte della formazione nella sua seconda decade. Con un risultato travolgente.
Di solito, quando fai fatica a dare un’etichetta a quello che ascolti, significa che stai ascoltando qualcosa di decisamente buono. Siamo andati ad atterrare su un “progressive metal” che è abbastanza generalista per cogliere gran parte delle sfumature di questa band battezzata da molti all’esordio come sludge, ma apparsa mutevole e scostante tutto sommato sin da “Red Album”.
Un’altra qualità che ha permesso di sviluppare i Baroness in modo così interessante è stato il modo nel quale i nuovi membri hanno portato il loro contributo: non inserendosi in un sound già esistente ma al contrario, portando la loro esperienza a intersecarsi a quella attuale. Spieghiamo meglio partendo da Sebastian Thompson, che nel gruppo è ormai da più di dieci anni: il suo drumming insistente e totalizzante è pressoché lo stesso che si sentiva in “Red Line” dei Trans Am. Gina Gleason, leading guitar già da “Gold & Grey”, viene da esperienze trasversali (ad esempio Le Cirque du Soleil!) ed è devota dei Metallica, un ascoltatore neanche troppo attento se ne accorgerebbe anche senza sapere delle sue esperienze precedenti in cover band. Potremmo osare di affermare che attualmente Gina suona i Metallica meglio dei Metallica stessi, portando valore aggiunto coi loro riff nella musica dei Baroness (cosa che fa, in maniera più discreta, anche con i suoi cori da contralto). E tuttavia, pur con tutte queste innovazioni, John non dimentica e riesce ancor a far suonare tutti un po’ sludge, come in Anodyne.
Togliendo intro e outro, è un disco da 7 pezzi in tutto, ma estremamente significativi: il trittico di singoli Last Word – Beneath the Rose – Shine colpisce dal primo ascolto e dal primo all’ultimo secondo, senza permettere di avere una preferenza su un pezzo piuttosto che un altro. Più metallonze Magnolia e la cupa Under the Wheel. E da buoni georgiani, c’è spazio anche per momenti acustici e coutnry davvero gradevoli, tra le brevi Embers e The Dirge collocate come parentesi nel disco e la chiusura di The Bloom.
Questa fiera realtà DIY continua a farci amare la musica e la sua musica in modo assurdo, con buona pace di chi ha adorato solo “Red Album” e non è mai riuscito a digerire il seguito. Salutiamo “Stone” come uno dei migliori dischi dell’anno e speriamo vivamente che nel 2024 potremo ascoltarlo dal vivo anche in Europa.