Gli anni tra il ’95 e il ’97/’98 sono stati probabilmente il periodo più difficile della mia vita. Quell’album è uscito da quel periodo, quindi è stato un album molto difficile da realizzare, direi doloroso da realizzare e tutt’oggi non uno che posso ascoltare molto facilmente
Queste parole della nostra Polly Jean inquadrano i sentimenti dell’artista verso il suo quarto disco solista, “Is This Desire?“, che oggi compie 25 anni. Aggiunse poi successivamente:
Penso che “Is This Desire?” Sia il miglior disco che abbia mai fatto – che forse farò mai – e sento che probabilmente è stato il momento clou della mia carriera. Ho dato il 100% di me stessa a quel disco
“Is This Desire?” è quindi il disco preferito di PJ Harvey. Di fatto, è anche il disco preferito di molti suoi fan. Allo stesso tempo e per un altro schieramento di fan, è anche il disco peggiore della sua carriera. Insomma, siamo di fronte al tipico disco di un grande artista che vede la fan-base divisa e che, da alcuni, viene vissuto come un’anomalia all’interno di una grande discografia.
Al riguardo, incuriosiscono le affermazioni di John Parish, lo storico collaboratore di molti dischi della Harvey:
È stato l’unico disco in cui la casa discografica è entrata e ha avuto un certo grado di input creativo, che non era mai stato consentito su nessuno degli altri dischi, certamente nessuno degli altri dischi in cui sono stato coinvolto. …..in questo album c’erano un paio di persone che sentivo avessero approfittato del fatto che Polly non stava molto bene in quel momento. Normalmente è così decisiva e forte su ciò che sente, su ciò che accadrà, ma su quel disco ha vacillato nel mezzo.
Sarà per questo che “Is This Desire?” fu una rottura rispetto ai dischi precedenti. E che dischi. “Rid of Me” e “To Bring You My Love” sono in genere in cima alle classifiche dei migliori dischi non solo di Polly Jean ma di tutto il rock anni ’90. Il crudo rock-blues dei primi anni si trasforma in questo disco in una materia più effimera, più atmosferica. Non che l’artista avesse abbandonato l’amore per le armonie e le note del blues, ma fa un esperimento: trasforma il blues, tramite l’elettronica e il lavoro in studio, lo rende meno ovvio e riconoscibile. Siamo alla fine degli anni ’90 e l’artista finisce per incorporare nel suo sound il trip-hop da poco esploso nel suo paese in particolare, pur rimanendo fedele alle proprie radici. Chissà se fu questo “l’input della casa discografica”: cavalcare la moda del momento. D’altro lato, lo stesso trip-hop è un movimento che a sua volta affonda le radici in un profondo amore verso la musica afro-americana, basti pensare al filo che va da Nina Simone ai Portishead.
Come detto, erano anni difficili per PJ Harvey. Il disco fu un parto lungo. Ci vollero tre anni e mezzo per farlo uscire, iato notevole per il mercato discografico di quei tempi. Nel 1996, con una telefonata improvvisa, PJ aveva terminato la sua breve ma intensa relazione con Nick Cave: “ero così sorpreso che quasi mi è cascata la siringa dalla mano”, ha scherzato (forse non troppo) Cave al riguardo. La rottura fu una delle ispirazioni dell’artista per “The Boatman’s Call” (1997), in cui alcune canzoni parlano di Polly. Ma fin d’allora l’australiano dimostrava la sua capacità di scavare la serenità fuori dal dolore, come avrebbe fatto anche 20 anni dopo con una prova oggettivamente ben più tragica (la morte del figlio adolescente che ha portato a un album come “Ghosteen”). Questo è quanto Nick Cave aveva da dire sulla sua ex in quel disco:
Con un sorriso storto / E una faccia a forma di cuore / Viene dalla campagna dell’ovest / Dove gli uccelli cantano il basso / Ha un cuore grande come una casa / Dove viviamo tutti / E imploriamo e consigliamo e perdoniamo
da “West Country Girl” (Nick Cave & The Bad Seeds)
A questa elegia, PJ risponde in questo modo, in My Beautiful Leah:
Era sempre così bisognosa / Diceva: “Non ho nessuno” / Anche mentre la tenevo / È uscita alla ricerca di qualcuno / Alla ricerca di qualcuno / Aveva solo incubi / E la sua tristezza non si è mai sollevata / E lentamente nel corso degli anni / Il suo bel viso si è storto
Qui la nostra sembra concordare con Cave sui tratti peculiari del suo viso. Il quale però per lei si è “storto” (“twisted” nell’originale) lentamente, a causa di anni di tristezza. Per il suo ex amante, invece, quel “sorriso storto” (“crooked” nell’originale) è una caratteristica innata e riflesso di elevate qualità estetiche e spirituali. Mentre l’uno vede in lei la bellezza, la forza sentimentale interiore, l’altra vede in sé stessa un abisso di solitudine e tristezza irrisolvibile. Fatto sta che per PJ Harvey a quel punto suonò un campanello d’allarme, in particolare riascoltando proprio My Beautiful Leah capì che non poteva continuare a crogiolarsi in quella depressione e che aveva bisogno d’aiuto. Si dice che in quel momento fosse a punto di abbandonare la carriera artistica, considerando l’ipotesi di diventare infermiera. Buon per noi che non lo abbia fatto, che abbia portato fino in fondo “Is This Desire?”.
Sì, perché, forse lo avevate già capito, ma secondo me questo potrebbe essere davvero il miglior album di tutta la carriera di PJ Harvey, splendido nella sua unicità. Quel che venne subito dopo invece, il quinto disco, “Stories from the City, Stories From the Sea”, avrebbe sbancato le classifiche, risultando a tutt’oggi il più grande successo commerciale della sua carriera. Bello, per carità, ma un’altra cosa, come musica, umori e atmosfere.
Si sente dire che la grande arte viene dalla grande sofferenza. Il mito, decadentista, dell’artista tormentato è duro a morire. Ma se quello è un mito attecchito nella borghesia occidentale, vi è poi da fare i conti con la mistica blues afro-americana. Che è pur sempre fatta di sofferenze, in questo caso anche tangibili, vista la storia tragica dei neri d’America, a differenze di quelle dettate dalla nevrosi di un Baudelaire o di un Pascoli. Di fatto, “Is This Desire?” è l’opera di una nemmeno trentenne artista britannica, forgiata nel blues e allo stresso tempo avida lettrice di letteratura bella pesa. T.S. Eliot, W.B. Yeats, Harold Pinter, James Joyce, Ted Hughes e, particolarmente in questo album, JD Salinger, compongono una lista di scrittori da lei citati come influenze e qui non mi addentro, per non millantare competenze che non ho. Mentre, più qualificato sono a commentare le sue radici musicali:
Sono cresciuta ascoltando John Lee Hooker, Howlin’ Wolf, Robert Johnson e molto Jimi Hendrix e Captain Beefheart. Quindi sono stata esposta in giovane età a tutti questi musicisti molto compassionevoli
Il blues appunto, fin dalle prime incisioni degli anni ’30 (Robert Johnson), passando per il blues elettrico del dopoguerra (John Lee Hooker e Howlin Wolf), fino al blues-rock psichedelico già parte del periodo che definiamo classic rock (Jimi Hendrix, Captain Beefheart). E tutto ciò “è sempre rimasto in me e sembra emergere di più man mano che invecchio” aggiunge PJ Harvey. In buona sostanza, quello che voglio dire (e l’intero articolo potrebbe riassumersi in questa affermazione) è che “Is This Desire?” è un grande disco di blues moderno. 12 “short stories” che toccano temi come la prostituzione, l’omosessualità (The Garden è una canzone iconica per i gay britannici), la depressione, l’emarginazione sociale. Tutti temi non estranei ai vecchi blues con cui lei è cresciuta (persino l’omosessualità, almeno quella femminile). Allo stesso tempo, un’opera di grande originalità espressiva e sonora che si staglia un po’ come un corpo unico e originale all’interno non solo della discografia di PJ Harvey, ma di tutta la storia del rock. Pur così, fin dai tempi di Robert Johnson, precursore della predetta storia, l’obiettivo che ci si prefigge è sempre lo stesso e Polly Jean lo ribadisce in questa sede:
Getta il tuo dolore nel fiume / Lascia il tuo dolore nel fiume / Affinché si lavi via lentamente
The River