1. Bureaucracy Apocalypse
2. Isolation
3. Fade Away
4. Ponytail
5. Spying on the Garden
6. Experimenting
7. Ronaldihno
8. Nightshift
9. The Ugliest
10. Lips
11. Ronaldo
12. Monday (Still Here)
I Leatherette stanno diventando maestri del dare un colpo alla porta dell’anno che finisce. Dopo “Fiesta”, debutto dello scorso anno, fanno la stessa cosa con “Small Talk”, un anno e un mese circa più tardi. Sanno come fare, sanno cosa fare e sono solo al secondo disco.
“Small Talk” è un lavoro agitato, anche quando malinconico, fa sentire la presenza di una follia strumentale cesellata nel suo essere viva e poderosa (il disco è stato registrato in presa diretta e si sente), animalesca e fuori fase. C’è quel piacere pruriginoso della ballad che anche quando è tale in fin dei conti è altro: Monday (Still Here) è quello ma anche un’ansiogena stortura scocciata all’estremo, elettrica e mala, così la lacrimevole Fade Away che si trascina lenta fino a, per l’appunto, sparire nel nulla, una lentezza che si incontra in Lips, con ancora insita la stortura che non abbandona mai. Al contempo l’altro piacere non meno pruriginoso è quello dell’urgenza: Bureaucracy Apocalypse uccide in due tempi, uno dissonante, l’altro uptempo che fila come un treno, proprio come fila Isolation mentre Michele Battaglioli (le cui linee vocali sembrano arrivare da un tempo ormai estinto) sbraita “Isolation, well, now I like it” come fosse una liberazione, fiondandosi dritto in un gorgo no wave disarticolato e massacrato dal sax di Jacopo Finelli e se pensi alla voglia di punk mentre gira The Ugliest, pensi bene.
Il lento devastarsi di Experimenting odora di violenza in tempi medi, Ronaldinho non sai dove piazzarla se non vicino alla foto degli Smiths, un brano che un tempo sarebbe stato singolo difficile da dimenticare, con un refrain pieno di amari vincoli esterni e mancanze inoppugnabili (“2016 and you wanna know why Suicide quit rock’n’roll: Vega’s gone goodbye bro RIP Bowie too welcome Blonde“) e Ronaldo, altro rimando al calcio (che noi fissati col pallone non possiamo che apprezzare), che con le sue sospensioni chitarristiche a mo’ di rasoio, lancia bordate imparabili (pun intended).
Liberarsi dell’etichetta post-punk non è stato poi un gran sforzo, poiché già “Fiesta” ne conteneva ben poco, inutile fissarsi su qualcosa che è solo una goccia in un mare acido, in tempesta perpetua. Così è stato, così è ancora. Il sophomore album della band bolognese è un balzo in avanti da tutti i punti di vista. Perché poi acido, questo mare? Perché le melodie bruciano la pelle. È cosa non di tutti i giorni incontrare, nell’ormai fiume in secca di quello che ormai eoni fa chiamavamo underground, situazioni che fanno sentire “scomodi”.
Scomodi perché non si sa bene dove andare a piazzarli, i Leatherette, ed è un bel miracolo, ché anche basta incasellare tutti, sapere in quale posto sia dovuto loro stare.