1. I swear, I Really Wanted To Make A “Rap” Album But This Is Literally The Way The Wind Blew Me This Time
2. The Slang Word P(*)ssy Rolls Off The Tongue With Far Better Ease Than The Proper Word Vagina. Do You Agree?
3. That Night In Hawaii When I Turned Into A Panther And Started Making These Low Register Purring Tones That I Couldn’t Control … Sh¥t Was Wild
4. BuyPoloDisorder’s Daughter Wears A 3000™ Button Down Embroidered
5. Ninety Three ‘Til Infinity And Beyoncé
6. Ghandi, Dalai Lama, Your Lord & Savior J.C. / Bundy, Jeffrey Dahmer, And John Wayne Gacy
7. Ants To You, Gods To Who ?
8. Dreams Once Buried Beneath The Dungeon Floor Slowly Sprout Into Undying Gardens
Immaginate il mondo dell’hip hop venire a conoscenza che, nello stesso identico giorno, uscirà un disco di Danny Brown e uno di André 3000. Nel primo nanosecondo figuratevi gente impazzita, pronta a stracciarsi vesti, capelli e quant’altro. Appena un attimo dopo la scena cambia radicalmente.
Contesto: André Benjamin, dopo la fine degli OutKast, è stato una sorta di ronin dalla rima tutto tranne che facile. Lo si è trovato in giro su dischi che spesso sono diventati instant classic, uno su tutti il folgorante ritorno degli A Tribe Called Quest del 2016, ma non sottovaluterei nemmeno “Prima Donna” di Vince Staples o “Michael”, il solista supersoulful di quella belva di Killer Mike uscito proprio quest’anno, o anche dischi acclamati a furor di popolo (non solo hip hop, se ben ricordate) tipo “The Seat at the Table” di Solange (sorella di Beyoncé). Di una sua fatica in solitaria, però, nemmeno l’ombra. I fan, affamati di un ritorno dell’artista di Atlanta, bisogna immaginarseli già scoraggiati, più o meno al livello di quelli di Zack de la Rocha. Questo, per l’appunto, fino al 14 novembre 2023, giorno in cui 3000 rilascia un’intervista fiume a Rodney Carmichael su NPR.
Non è che non abbia roba rap da parte, scritta o abbozzata, dice Benjamin, è solo che quella roba non lo convince al punto da pubblicarla e condividerla col mondo. Ammette di non avere il dono del freestyle e di non essere veloce a scrivere (ce n’eravamo comunque accorti). E qui potete vedere l’esatto istante in cui spezza il cuore a tutti gli amanti del rap, non solo degli OutKast. Invece il materiale che poi sarebbe diventato a pieno titolo il suo primo album solista “New Blue Sun” lo convince, ma vuole testarlo su un audience “più giovane” e quindi fa un salto da Tyler, The Creator e lì ci trova pure Frank Ocean. Ora, due come questi che di anni ne hanno rispettivamente 32 e 36 e che di certo sono cresciuti a pane e “StanKonia”, a trovarsi in casa uno come il co-autore di quella hit immortale che è Ms. Jackson che ti fa sentire qualcosa di ‘sto tipo chiedendoti non solo “Come ti sembra?” ma anche “Che impressione ti fa? Come potremmo dare una mano a questo pezzo?” deve come minimo far cagare addosso. Di tutta risposta Tyler dice, a questo peso massimo, che uno dei brani gli ha dato un’immagine di 3000 che rincorre una farfalla in un prato. Un po’ come la copertina del suo “Flower Boy”, per dire?
Per assurdo, il rapper di Hawthorne, California pare avere in qualche modo ragione. Un disco di “musica sperimentale per flauto”, così lo descrive il suo ideatore, non può che portare alla mente qualcosa di aleatorio, sospeso, distante. Lo strumento, il preferito da Benjamin da molti anni a questa parte, viene trattato in modo tutto tranne che convenzionale, digitalizzato, reso altro. La produzione a opera sua e di Carlos Niño, figura di spicco della scena jazz losangelina, è in qualche modo quella di un disco che, a tutti gli effetti, potremmo definire sci-fi (il titolo, d’altronde, si riferisce alla possibilità che il sole, a un certo punto, possa diventare blu), ambient e a suo modo progressivo. I flauti e le tastiere manovrate da Surya Botofasina, diventano concettualmente bordoni infiniti che aleggiano come nuvole estendendosi agli estremi dello spettro, da John Coltrane a Vangelis, dialogando con le percussioni di Niño e le punteggiature di batteria a opera del solito, enorme Deantoni Parks, qui solo per dare il giusto colore ove necessario. Si sentono i respiri di Benjamin mentre tutto si estende o crolla prendendo direzioni kosmische, creatrici di ritmi disallineati per trip debilitanti capaci di tramutarsi anche in ostinati carichi d’ansia e immediate distensioni, proprio come ogni buon disco jazz sa (e forse deve) fare. Perché è di jazz che stiamo parlando e su quel terreno sacro stiamo camminando, lentamente, per tutta gli 87 minuti del disco che abbiamo tra le mani che se uscisse per Impulse! non stupirebbe poi molto.
Se i titoli vi potrebbero poi sembrare delle gran “trollate”, non lo sono. Anche in questo caso c’è del serio, ci sono storie che vengono raccontate con grande serietà, per l’appunto, frammentate dalla solita ironia che da sempre contraddistingue l’ex-OutKast che, senza proferire verbo, dice più di mille barre sulla sua attuale condizione artistica.
Lo so, percepisco lo stupore e anche quasi sicuramente del disappunto per “New Blue Sun”, ma credo sia questa parte dell’intento di André 3000 che, a ben pensarci, è tantissimo tempo che si diverte a fare cose che non tutti si aspettano e direi anche per fortuna, altrimenti un disco tanto bello non sarebbe uscito. Non è forse stato così vent’anni fa anche con la sua pluripremiata e infine osannata Hey Ya!? Non è forse meglio un album che crei contrasto e curiosità in un mondo di produzioni “telefonate”?