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Danny Brown – Quaranta

2023 - Warp
alternative rap

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Tracklist

1. Quaranta
2. Tantor
3. Ain’t My Concern
4. Dark Sword Angel
5. Y.B.P. (feat. Bruiser Wolf)
6. Jenn’s Terrific Vacation (feat. Kassa Overall)
7. Down Wit It
8. Celibate (feat. MIKE)
9. Shakedown
10. Hanami
11. Bass Jam


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Viviamo, ormai a pieno titolo, in un’epoca quasi completamente “museale”, ci ritroviamo sempre più spesso a mostre che parlano di generi, gruppi, personaggi che tutto avrebbero voluto – nei propri anni cosiddetti “ruggenti” – tranne che essere piazzati in un museo/una mostra/un vernissage da fighetti alla mercé di una pletora di nerd pronti a disquisire di questa o quella opera in un ambiente asettico e sterile, privo di quella puzza di pericolo e lezzo di sudore in cui quelle stesse opere sono nate e cresciute. È successo anche all’hip hop che, proprio quest’anno, ha spento le sue prime cinquanta (50) candeline. Tantissime, esagerate, così come tantissimi sono coloro che lo hanno costruito.

Al netto dell’ovvietà tale per cui “il meglio è dietro di noi”, spesso vera ma ancora una volta non del tutto corretta (sì, ok, potete cominciare a elencare Wu-Tang Clan, Run-DMC, A Tribe Called Quest, Beastie Boys, Cannibal OX, Mobb Deep, Gang Starr e continuare fino allo sfinimento), e del morboso odio rockish incarnato nelle demenziali e razziste parole di Jann Wenner di qualche tempo fa con le quali ci siamo già ampiamente puliti le terga, il genere è vivo e lotta assieme a noi e di barriere ne ha buttate giù una quantità difficile da enumerare. Tutto modo, i numeri e il tempo hanno il loro peso e se prima ovunque ti girassi c’erano almeno dieci artisti a darsi battaglia per vincere l’eterna lotta dell’innovazione o della commercializzazione (in questo caso vista come sconfitta se intesa come ammorbidimento e appiattimento sui gusti del grande, sonnolento pubblico), nel 2023 è chiaro si faccia fatica a tirare su una quantità decente di artisti capaci di spostare l’ago di una bilancia ora più che mai ferma, ma, forse, è il caso di dire che bastino pochi nomi e pochi album per fare la differenza, in questo marasma di uscite sparate fuori a velocità stratosferiche senza un minimo di logica a sostenerle. Tutto questo per dire che forse basta un nome, Danny Brown, e un disco, “Quaranta” per dire “vivo e lotta con noi”.

Mi fa sorridere rileggere la recensione di “uknowhatimsayin?” del collega Fabbri in cui si immaginava quarantenne disturbato da sbarbati armati di potenti casse bluetooth, e questo perché “Quaranta” è un album nato nel 2021, quando il suo creatore di anni ne aveva proprio tanti così, in un momento allucinante dell’umanità, appestata da una pandemia e da tutte le conseguenze che si è portata dietro e che, immobilizzato come tutti noi, da un lockdown mondiale si è ritrovato solo con se stesso, pronto anche lui a narrare quel che stava accadendo, soprattutto tra le pareti del suo cranio e, bonus, una sorta di sequel naturale di “XXX”. Dalla copertina Brown, quasi totalmente in ombra, guarda amaramente in camera e lo stesso fa nello scatto di Peter Berne in cui indossa una maglietta dei Mayhem. Lo sguardo è di quelli che già fanno capire quello cui andremo incontro nell’ascolto di un album lasciando presagire il disastro emotivo.

Due sample cuciti aprono così: “In Italian ‘forty’ is ‘quaranta’”. Da qui in poi il rapper di Detroit, nella title track, sciorina il malessere raccolto fino a quel momento, forse finanche a questo, su una base morbida e sospesa ma a bassi spiegati e rende reale quella foto: “Questa merda rap che mi ha salvato e al contempo mi ha fottuto / Il dolore nel mio cuore che non posso nascondere / Dentro di me c’è un trauma, lo puoi vedere nei miei occhi.” Sta tutto in queste prime battute, con le chitarre che girano attorno e tacciono per poco e poi tornano a spingere, leggiadre. Segue Tantor e il passo cambia, si sente lo zampino pesante di The Alchemist e inizia che sembra debba partire un missile punk e invece resta r’n’b ma teso, cattivo, sospeso anche questo. Nel video Brown è coperto di tecno-ciarpame d’accatto che pare uscito da “Tetsuo: The Iron Man” o, forse meglio, “Neptune Frost”, film di Saul Williams, semina il panico per le strade di L.A., combatte nell’iperspazio di inizio Millennio, e canta in rime che superano l’assurdo su questa tensione basso-batteria che non si sgonfia mai, il ritornello è evidente solo per ripetizione linguistica e sputa “Chiudi quella cazzo di bocca, è tempo di correre”, salvo interrompersi al salto finale del modem. Comunicazioni interrotte, come nelle zone di guerra con tanto di grida.

La doppietta che vede la premiata ditta Quelle Chris & Chris Keys ai comandi è di quelle che eradicano lasciando il vuoto attorno: Ain’t My Concern è un fuoco di fila sulla compagine rap, non ce n’è per nessuno e Brown scava in un brano che fonde la scuola Shaolin newyorkese con quella dei Grandi Saggi Pensatori di Bristol, è un elastico bombastico, fa male ed è un’aggressione frontale notturna; Dark Sword Angel sta su un altro pianeta, uno di quelli psichedelici abitati da synth ubriachi fradici che fanno ondeggiare tutto, come una nave pronta al naufragio con tanto di voci aliene filtrate che intrecciano le lingue a stretto giro. Detroit in Y.B.P. viene dipinta a tinte scure, se non scurissime col microfono che passa da Brown a Bruiser Wolf, nominano il nume tutelare della città J Dilla ma non solo, intanto su base minimale povera di pulsazioni i due si lanciano in un rhyming sfiatato, nel senso che pare corrano i 100 metri e lo facciano senza sudare. Al banco mix Kassa Overall che piazza caricatori tirati a suoni nonsense e, appena un attimo dopo su Jenn’s Terrific Vacation al microfono, non meno insensata, viaggio allucinogeno per voci psichiche e visioni di gentrificazione monstre con lo sguardo che spazia da Starbucks a Organic Garden dove prima c’erano crackhouse, salvo poi tornare a produrre (in tandem con Samiyam) Celibate, placido notturno e sensuale condiviso con Mike, rapper di stanza a NYC, e infatti il sound è quello, orgasmi e papponi inclusi (“But I don’t fuck around no more, I’m celibate”).

Squadra che vince, poi, non si cambia e così riecco Paul White che confeziona due abiti di sontuosa seta oscura che calzano a pennello a Danny che rappa al buio, rilassato e in trip totale su Bass Jam (e il basso si sente e vola), inalando ancora l’aria di casa del produttore, la Terra d’Albione patria di Massive Attack e Tricky e nella crepuscolare Down Wit It, che però le radici le ha affondate negli States.

La lingua di Danny Brown continua a essere affilata, anche quando sembra non dover tagliare lo fa, anche quando è rivolta verso l’interno e non l’esterno e “Quaranta” è il suo fodero perfetto. Come dicevo, basta un disco, non cento, perché a un genere batta ancora il cuore.

Mi chiedo se sia legale avere una discografia fenomenale come quella del Nostro.

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