L’ultima notte dei Morphine fu anche la più cupa, e quelle di Mark Sandman sembravano le preghiere di un ex giocatore d’azzardo non troppo sicuro del perdono.
Gli Hüsker Dü erano una rock’n’roll band sull’orlo di una crisi di nervi e “Warehouse: Songs and Stories” abbassava per sempre la saracinesca sulla loro avventura: rimaneva il ruggito innocente di queste venti canzoni e la loro matassa di bellezza e disperazione, di saggezza e follia.
Dentro “Songs Of Leonard Cohen” c’era la docile inquietudine di un beatiful loser che frugava nella tragedia del mistero umano per cercarne lo splendore
Quella dei Blondie fu un’intuizione felicemente ossimorica: riscattare il lato ludico del punk portandolo in discoteca, cosa che ai rockers del tempo dovette sembrare una bestemmia in chiesa.
“Psychocandy” si lasciava sedurre dall’occhiolino dalle consuetudini pop e al tempo stesso le faceva saltare in aria in mille pezzi per poi gettarle in una voragine di allucinata e perversa voluttà.
“Among My Swan” s’affidava alla catarsi dei sogni, era una dolce vertigine di litanie che cristallizzavano il tempo, era vago senza escludere l’intensità. Aveva in sè l’autunno e come orizzonte il mistero.